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12 Gennaio 2006

Tra sospetti e diversità

Autore: Massimo Giannini
Fonte: la Repubblica

NEL nome di Enrico Berlinguer, che nel 1981 l´aveva sbattuta in faccia al Psi e alla Dc, il partito dei democratici di sinistra sembra scrollarsi di dosso la “questione morale”. Lo scandalo Fiorani, l´”azzardo” di Unipol, il “collateralismo” offerto alle manovre del suo amministratore delegato: tutto questo è stato derubricato a “questione politica”.

La conclusione unitaria della direzione di ieri non era facile né scontata. La Quercia, nel momento forse più difficile di questi ultimi anni, è riuscita a non farsi bruciare sul rogo dell´etica, ma a riconoscere i suoi errori sul piano della politica. Non è stata un´operazione indolore, soprattutto per Fassino e D´Alema.

I due “consoli”, come li ha chiamati Fabio Mussi, avevano un lungo elenco di sbagli da farsi perdonare. E´ stato un grave sbaglio fidarsi troppo a lungo di Consorte, un manager che avrà pure fatto dell´Unipol il terzo gruppo assicurativo del Paese, ma al prezzo di irregolarità di ogni tipo.


È stato un grave sbaglio non vedere da subito che i suoi alleati, da Gnutti a Ricucci, non erano il “nuovo” che bussa all´asfittico salotto buono del capitalismo imprenditoriale, ma il “vecchio” che si ricicla nel tinello buio della finanza speculativa.

E´ stato un grave errore non prendere le distanze per tempo dall´Opa su Bnl, trasformando un´operazione bancaria in una strategia politica. E´ stato un grave errore “fare il tifo”, con l´antica e malintesa idea di certa sinistra di accreditarsi presso l´establishment, comprandone una quota o costruendone un pezzo.


Fassino e D´Alema hanno ammesso di aver sbagliato. Sono arrivati tardi. Se il passo compiuto ieri fosse stato fatto in estate, quando tutto era già sufficientemente chiaro, i Ds e l´intero centrosinistra si sarebbero risparmiati questa umiliazione.

E oltre al danno, si sarebbero risparmiati la beffa di un Cavaliere che, da accusato, si trasforma in accusatore. A meno di tre mesi dal voto continua a lanciare minacce irresponsabili e messaggi destabilizzanti.

Carica le parole come fossero bombe, con l´unico scopo di far saltare gli avversari, e senza rendersi conto di terremotare la democrazia. Invece di correre dal magistrato per denunciare quello che sa (se mai davvero sa qualche cosa) prima si precipita nel solito salotto di Bruno Vespa, a parlare di non meglio precisate «informazioni» in suo possesso, circa il presunto coinvolgimento dei leader del centrosinistra nell´affare Unipol-Bnl.

Si erge a campione di moralità, proprio lui che da dieci anni sfugge ai processi per corruzione e che oggi guida una maggioranza coinvolta con cinque suoi autorevoli membri nello scandalo della Lodi e con un ministro sul quale da ieri pende una richiesta di autorizzazione a procedere per il crac della Parmalat.


Ma per Fassino e D´Alema è meglio tardi che mai. La “diarchia” ha tenuto. Su una linea di dignitosa autocritica, ma anche di legittima rivendicazione di un passato e di un presente di cui andare comunque orgogliosi.

La Quercia è e resta un partito di uomini onesti. E se il documento della direzione è passato all´unanimità, questa è la prova più tangibile che di scheletri nell´armadio non ce ne sono per nessuno. Non ci sono conti segreti né tangenti occulte.

Era importante riaffermarlo, e respingere l´ombra di un sospetto che aveva cominciato ad aleggiare, e che il centrodestra ha cominciato a cavalcare. In questo, ha giovato non poco la solidarietà degli alleati. Prodi e Rutelli hanno dimostrato un sincero spirito di coalizione, evitando di infierire, nel momento della sua massima debolezza, su un partito del quale lamentano talvolta la “pretesa egemonica”.

Si tratterà di vedere se e quanto durerà questo senso di comune appartenenza. Ci sono in vista due test decisivi: il programma (sul quale già si profilano conflitti difficilmente ricomponibili con Bertinotti e con i radicali) e il partito democratico (che se non si può costruire nel laboratorio delle nomenklature, non può nascere nemmeno sulle macerie dei partiti).


Ad ogni modo, se non ci sono mazzette non ci sono neanche complotti. E qui Fassino e D´Alema, in un contesto di ritrovata collegialità, dovranno sforzarsi di riempire di contenuti convincenti la loro exit strategy.

E´ comprensibile l´indignazione per la fuga di notizie forse pilotate o per la pubblicazione di intercettazioni prive di autorizzazione della magistratura. E legittima la costituzione di parte civile rispetto alle indiscrezioni uscite sulla telefonata tra Fassino e Consorte.

Ma la controffensiva sarebbe insufficiente, se si limitasse alla pur sacrosanta difesa del principio di legalità e delle tutele costituzionali previste per i parlamentari. C´è bisogno di uscire dalla sindrome dell´accerchiamento con la forza e la verità delle risposte politiche. Non con il vittimismo, e nemmeno con il formalismo.


La “diversità” è una pratica, non è una politica. Ed è stato un abbaglio, protratto per troppo tempo, averla interpretata come un “valore in sé”, travisando il senso della lezione berlingueriana.

La “diversità”, se c´è, si realizza con i fatti, e non si teorizza con le parole. Per poter essere spesa sul mercato politico, deve essere riconosciuta dall´esterno, più che rivendicata dall´interno.

Per questo, adesso che la ferita sembra essersi rimarginata tra i suoi dirigenti, per i Ds il vero problema sarà verificare quanto invece la lama affilata della “questione morale” abbia inciso sulla carne viva del suo elettorato.

E qui la questione si fa più complessa. E anche più densa di incognite, visto che Berlusconi ha dimostrato di voler usare come una clava la sua riscoperta vena giustizialista, e visto che lo stillicidio delle intercettazioni telefoniche sembra destinato a durare almeno fino al voto del 9 aprile.


Detto tutto questo, resta il fatto che una “diversità” esiste, tra sinistra e destra. E proprio i fatti di questi ultimi giorni stanno lì a dimostrarlo.

Solo in questa metà del campo può andare in scena lo psicodramma di un partito che, dal vertice alla base, si lacera e si tormenta per una pura questione di etica dei comportamenti, e non certo per una gestione illecita e per atti penalmente rilevanti.

Solo in questa metà del campo si può assistere da una parte a un gruppo dirigente che si espone a un “processo”, riconosce i suoi errori, cerca di porvi rimedio, e dall´altra a un diffuso malessere degli elettori che scrivono, faxano, manifestano la loro delusione o rappresentano il loro disagio dalle colonne dell´Unità.

A destra tutto questo non succede e non potrebbe succedere. A destra, dopo cinque anni di atti moralmente inaccettabili e di leggi eticamente insostenibili (dai condoni ai decoder, dalle Cirami alle Schifani, dalle Gasparri alle Cirielli) nessun leader della maggioranza ha mai espresso un dubbio, nessun partito della Cdl ha mai palesato un mal di pancia, nessun militante ha riempito le pagine del Giornale, del Foglio o del Secolo d´Italia con lettere di denuncia o di protesta.


E un dato di fatto. Se a sinistra c´è a volte un surplus di suscettibilità civica, a destra c´è spesso un deficit di sensibilità democratica.

Forse questo non basta per vincere le prossime elezioni, visto che i veleni di Bankopoli, tutt´altro che esauriti, rischiano di sottrarre al centrosinistra l´argomento popolare del “siamo migliori di loro”, e per fornire al centrodestra l´arma populista del “siamo tutti uguali”.

Ma resta un patrimonio da valorizzare, contro la barbarie mediatica del Cavaliere, che può precipitare l´Italia in un incubo assai peggiore di quello vissuto ai tempi di Tangentopoli.