8 Febbraio 2006
Sui giovani la politica è miope
Autore: Tito Boeri
Fonte: la Stampa
L’altra faccia della medaglia del declino economico è il conflitto
intergenerazionale, quello fra giovani e anziani. Chi si candida a governare il
Paese dopo le prossime elezioni ha il dovere di dirci fin d’ora come intende
affrontarlo. Da quanto si intuisce da questa rissosa campagna elettorale, si sta
solo lavorando ad accentuarlo, a rendere più acuto lo scontro fra giovani e
anziani.
Da ormai quindici anni la posizione relativa dei giovani nella
distribuzione dei redditi in Italia sta peggiorando. La povertà tra chi è senza
lavoro parla sempre più giovane ed è nelle classi di età più basse che è
concentrato il fenomeno dei working poor. Hanno oggi una volatilità dei loro
redditi fino a 5 o 6 volte superiore a quella delle generazioni che li hanno
preceduti quando avevano la loro età. Non pochi dei giovani lavoratori di oggi
potranno, dopo aver lavorato 40 anni, ricevere pensioni di poco più di 400 euro
al mese, al di sotto della linea della povertà assoluta. Il nostro sistema è
notoriamente squilibrato a favore di chi oggi riceve una pensione (due terzi
della spesa sociale sono destinati a questa funzione), magari a 57 anni e con
l’aspettativa di vivere per altri 25-30 anni. In questa legislatura gli
interventi su fisco e trasferimenti sociali hanno ulteriormente migliorato la
situazione delle famiglie con un anziano come capofamiglia rispetto alle
famiglie con figli minori. E l’unica proposta di politica sociale sin qui emersa
in una campagna elettorale fatta per lo più di insulti, è la scelta di aumentare
le pensioni minime. Ci si insegue nel cercare di conquistare il partito dei
pensionati. Mentre la povertà fra i giovani non è certo una priorità.
Perché la politica ignora i giovani? Ed è possibile risolvere il conflitto
intergenerazionale anziché doversi schierare dalla parte dei giovani o da quella
degli anziani?
Cominciamo dalla prima domanda. Finché ci sarà un conflitto fra
generazioni, saranno gli anziani ad avere la meglio. Oltre ad essere
maggiormente rappresentati dove conta esserlo, sono sempre più numerosi tra gli
elettori. L’elettore mediano aveva nel 1992 (quando fu varata l’unica riforma
delle pensioni che ha ridotto le prestazioni degli attuali pensionati) 44 anni,
alle scorse elezioni politiche aveva 46 anni, oggi ha 47 anni e nella
legislativa successiva raggiungerà i 50 anni. In un sistema bipolare, i partiti
cercano, per vincere le elezioni, di catturare il voto di questo elettore
mediano. Dunque è comprensibile che, se conflitto ha da essere, la bilancia
penda sempre di più dalla parte degli anziani.
Passiamo al secondo quesito: è inevitabile il conflitto? In realtà
l’elettore mediano ha molto da perdere dal peggioramento della condizione
relativa di chi è più giovane. Saranno proprio gli attuali under 40 a pagare le
pensioni dell’attuale elettore mediano. Dal successo dei più giovani
nell’accumulare capitale umano e nel valorizzarlo dipende in buona misura la
ricchezza futura dell’elettore mediano, anche perché chi ha livelli di
istruzione più elevati riesce a lavorare più a lungo, può creare posti di lavoro
e stimolare, attraverso la trasmissione ad altri delle proprie conoscenze, la
crescita dell’intera economia. Soprattutto le abilità non cognitive (capacità di
comunicazione, autostima, adattabilità) così essenziali nel successo
professionale si formano nei primi anni di vita. Dunque l’elettore mediano è fin
da subito interessato ad investire nel benessere e nella crescita culturale dei
più giovani. Ma non se ne rende conto perché, nel suo lavoro, vede solo il lato
negativo del rapido inserimento nel mondo del lavoro dei più giovani, quello
della svalutazione del proprio capitale umano. Ci sono allora tanti modi per
fare realizzare all’elettore mediano i vantaggi di una bilancia delle
opportunità che si sposta maggiormente a favore dei giovani, «internalizzando» i
vantaggi che da questa derivano.
Facciamo un esempio su di un terreno centrale, oltre alle pensioni, in cui
oggi si consuma il conflitto intergenerazionale: la qualità dell’istruzione e
della ricerca. Un quarto dei nostri docenti ha più di 60 anni, la percentuale
più alta in Europa. Il pensionamento degli ultrasessantenni ci offre, in linea
di principio, l’opportunità di rinnovare il nostro corpo docente, portandolo
alla frontiera della ricerca. Siamo da questa molto lontani, dato che la
valutazione della ricerca universitaria, appena conclusasi (vedi
www.civr.it), ha mostrato che
in molte discipline solo il 10-20% dei migliori prodotti di ricerca selezionati
dalle università ha caratteristiche di eccellenza secondo una scala di valore
condivisa dalla comunità scientifica internazionale. Il problema è che oggi sono
spesso i docenti più anziani a decidere sull’ingresso delle nuove leve e molte
volte preferiscono far passare chi è meno in grado di svalutare il proprio
capitale umano ed è stato magari da anni al loro servizio. Solo 5 docenti su 100
hanno meno di 35 anni e il nostro sistema universitario ha una percentuale di
ricercatori stranieri nel corpo docente vicina allo zero. Se la valutazione
della ricerca venisse ora utilizzata per decidere come distribuire i
finanziamenti alle università, anche i docenti più anziani sarebbero interessati
a rinnovare il corpo docente chiamando i ricercatori più bravi che si trovano
sul mercato, anche lontano dal proprio orticello. Col loro ingresso nel corpo
docente, questi ricercatori farebbero infatti salire il livello medio della
ricerca nella propria università contribuendo a migliorarne le disponibilità
finanziarie. Ma è molto probabile che questo utilissimo esercizio di valutazione
rimanga in qualche cassetto telematico e che le università continuino a ricevere
finanziamenti in base unicamente al numero degli studenti. Con buona pace di
quei docenti che pensano ormai solo alla pensione e di quegli studenti che
cercano una università più facile.