Magari è solo un temporale estivo.
Ma da qualche giorno il traguardo del Partito democratico non viene più considerato scontato. E forse è un bene. Non ho mai condiviso, infatti, l’idea che a quel traguardo si possa arrivare sull’onda di una sua presunta inevitabilità.
Non basta constatare la scarsa capacità espansiva di Margherita e Ds, che è un dato di fatto ma che di per sé può giustificare al più un buon cartello elettorale. Non giustifica un partito nuovo nel panorama politico europeo.
Anche la dialettica tra egoismo degli apparati e disponibilità di persone e gruppi esterni ai partiti non è inedita.
Accompagna da quindici anni la nostra lunghissima transizione, depositandosi di volta in volta nelle offerte politiche che si presentano come più innovative e unitarie. E oggi scommette sul Partito democratico.
La debolezza dei partiti attuali e la disponibilità che si manifesta al di fuori di essi sono insomma due ottime condizioni per far marciare un progetto che tuttavia, se non vuole arenarsi, deve tornare alla sua ambizione.
Avrà pure un significato il fatto che le prime due decisioni forti del governo Prodi sono state un pacchetto di liberalizzazioni e la conferma della missione in Afghanistan. Da un lato più mercato, dall’altro una missione militare a scopi di stabilizzazione.
Liberali e interventisti umanitari.
Possiamo anche raccontarci che si tratta di scelte tutte già implicite nelle tradizioni politiche del Novecento, ma sappiamo che così non è. È vero che le nostre tradizioni politiche ci danno un’attrezzatura per provare a confrontarci con le sfide del presente, ma si tratta di sfide inedite nei confronti delle quali non esistono ricette socialdemocratiche o popolari.
In Germania, Spd e Cdu-Csu governano insieme. Il centrodestra olandese va in crisi sui diritti delle persone immigrate. Tony Blair ha in cima alla propria agenda la lotta alla criminalità e ai comportamenti illegali diffusi. Dov’è la vecchia distinzione tra socialismo e conservazione? Qualcuno la affida a Zapatero, forse con un eccesso di strumentalità. O addirittura con l’abbaglio di fare del laicismo la ragione sociale della sinistra dei tempi nostri.
Michele Salvati ha scritto un lungo Manifesto per tratteggiare i contorni ideali di un nuovo Partito democratico.
Uno sforzo che merita una discussione approfondita e che va nella direzione giusta perché disegna un campo progressista dal profi- lo liberaldemocratico. A questo pro- filo nei prossimi mesi dovremo dare un corpo fatto di politiche: dalle liberalizzazioni al mercato del lavoro, dalla riforma del welfare alla politica estera. Qui non esistono binari già tracciati, su questo si formerà l’identità dei Democratici italiani.
Margherita e Ds saranno il cuore del nuovo partito, ed è giusto che si concentrino sui loro congressi cui spetta di formalizzare nella primavera prossima la scelta cercando di farla condividere all’insieme di entrambi i partiti.
Le forze esterne ai due partiti, tra cui quelle che si sono date appuntamento oggi a Roma, hanno tutto il diritto di reclamare spazi per un’area che ha potenzialità di espansione molto vaste. Ma per non tornare indietro la partita decisiva si gioca sulle scelte da fare al governo e in parlamento. Solo attorno a quelle scelte si attenuano le appartenenze e si fa nascere il Partito democrati