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10 Ottobre 2007

«Si tratta di un simbolo culturale bisogna riflettere prima di vietarlo»

Fonte: Corriere della Sera

Roma — «Sia ben chiaro che io non voglio
le donne con il burqa perché penso che può essere una forma di oppressione. Ma
non usiamo l’argomento della riconoscibilità del volto perché allora vale anche
per il casco del motorino usato dai nostri ragazzi». È indignata Rosy Bindi
perché, dice, «estrapolando una frase dal contesto » è stata presentata come
fautrice del burqa. E lo dice con veemenza al termine di un dibattito
organizzato dalla rivista Reset, in cui ha avuto modo di lodare la
«secolarizzazione che ha fondato la laicità dello Stato, che è garanzia di
pluralismo culturale e religioso» e di sottolineare come la vera sfida del
futuro sia «il rapporto tra credenti e come far convivere le diverse religioni».

Dunque non è per il burqa?
«Ma se siamo andati in Afghanistan per togliere il
burqa alle donne, figuriamoci se io glielo voglio mettere in Italia ».

Allora
cosa intendeva dicendo che il burqa può essere un simbolo della propria civiltà?


«Volevo dire che se non è una forma di oppressione, ripeto se non lo è, il velo
è un simbolo culturale. E nella civiltà postsecolare i simboli delle varie
culture devono avere tutti la possibilità di esprimersi. Non ci deve essere un
annullamento dell’identità. È questo lo Stato laico. E se indossare il burqa è
una libera scelta, prima di proibirlo con argomenti pretestuosi credo che
dovremmo riflettere».

Ma il burqa non è diventato anche il simbolo della
negazione dei diritti delle donne da parte dei loro uomini?

«Non c’è dubbio che
quelli devono essere tutelati. Ci mancherebbe. Lo Stato laico deve essere
garanzia dei diritti delle persone e quindi le donne islamiche vanno difese
anche dall’imposizione del velo. Ma non con le argomentazioni di Gentilini (il
vicesindaco leghista di Treviso, ndr) ».

Ovvero?
«Lui vuole negare alle donne
musulmane di esprimere la propria identità. E questo è ancora più pericoloso.
Anche l’omologazione alla civiltà occidentale se imposta è una violenza».

La
legge vieta di rendere il volto non riconoscibile. Questo non è un argomento da
prendere in considerazione?
«Questo è un argomento serio ma non può essere usato
in senso strumentale. A richiesta il volto deve essere reso visibile e
riconoscibile».

Non pensa che le stesse donne immigrate abbiano paura di
ritrovarsi qui in Italia maggiormente in balia dell’integralismo che nei loro
Paesi d’origine?

«Le donne immigrate sono fragilissime e hanno paura non solo
che si riproduca qui la sottomissione che si esercita nelle loro civiltà, ma
anche di subire da parte nostra il non rispetto della loro civiltà. La vera
sfida è costruire la loro libertà nel rispetto della loro differenza».
«Riconoscibilità? Ma vale anche per il casco»