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9 Febbraio 2005

Sharon e Abbas insieme: deponiamo le armi

Fonte: Corriere della Sera

DA UNO DEI NOSTRI INVIATI SHARM EL SHEIKH ( Egitto) — E’ presto per abbandonarsi all’ottimismo ed esultare, immaginando di veder realizzata in fretta la pace fra israeliani e palestinesi. Ma quanto è accaduto ieri a Sharm el Sheikh, villaggio egiziano di esotiche vacanze marine a buon prezzo, e teatro nel passato di troppe promesse tradite, è qualcosa di ben più importante di un generico passo in avanti per chiudere il conflitto dei conflitti.
I due nemici, il premier israeliano Ariel Sharon e il neopresidente palestinese Mahmoud Abbas ( detto Abu Mazen), sembravano in realtà due vecchi amici cui soltanto l’appartenenza a campi contrapposti impediva espressioni più esplicite di reciproca stima. I riconoscimenti pubblici di Sharon all’avversario, di cui apprezza la determinazione e di cui riconosce la « grande vittoria elettorale » , sono andati infatti ben oltre la correttezza formale dovuta a un leader con il quale si cercherà di raggiungere la pace. E’ la conferma che il vecchio generale ha avuto il coraggio di chiudere con il suo passato e ora è convinto di passare alla storia come l’unico premier capace di trovare una soluzione al conflitto.
Sarà anche vero, come dice Shimon Peres, che non sono i capi a cambiare, ma sono i fatti a convincerli che occorre modificare la rotta, ma Sharon non ha esitato a offrire ad Abbas le prove della sua disponibilità: in pubblico, ha detto di sperare che il presidente possa procedere fino alla « creazione di uno Stato palestinese, democratico e indipendente » .
Concetto espresso più volte tra le righe, mai in forma tanto esplicita, convinta e solenne; in privato, gli ha offerto un invito nel suo ranch nel Negev, proprio come fece Ronald Reagan con Michail Gorbaciov.
Ieri mattina, in attesa del vertice, si respirava un’atmosfera quasi surreale, che sembrava raccordarsi alle bizze meteorologiche, con la curiosa alternanza tra caldo e freddo. Pareva quasi che Mahmoud Abbas fosse più popolare tra gli israeliani che tra gli arabi. I primi, come l’ambasciatore Avi Pazner, solerti nel riconoscere la « buona volontà » del presidente palestinese; i secondi, timorosi delle concessioni che il successore di Arafat sarà disposto a offrire per riprendere il negoziato. Non c’è stato molto tempo per organizzare il summit, ma il padrone di casa, il presidente egiziano Mubarak, e l’altro grande sponsor, re Abdallah di Giordania, si sono adoperati al massimo per creare il clima più propizio. Portando nel salone del summit anche la disponibilità del grande comprimario assente, la Siria, a convincere i capi dei movimenti estremisti palestinesi, con base a Damasco, a rinunciare alla violenza per aiutare Abbas.
Il problema era legato al delicato parallelismo della tregua. Il presidente palestinese aveva preparato una formula prudente, quasi letteraria: « Siamo impegnati a rimpiazzare bombe e pallottole con il linguaggio del dialogo » . Sharon, che prima intendeva legare la sospensione delle operazioni militari israeliane a risultati concreti da parte palestinese nel reprimere i gruppi violenti, alla fine, dopo un faccia a faccia di quasi un’ora, ha compiuto il passo che il vertice dell’Anp aspettava. « Ci siamo accordati così: tutti i palestinesi cesseranno tutti gli atti di violenza contro gli israeliani, ovunque si trovino, e parallelamente Israele cesserà tutte le sue operazioni militari contro i palestinesi dappertutto » .
Tono e ripetizioni erano chiaramente voluti: per offrire ad Abbas una carta importante da utilizzare con i suoi nemici interni ( soprattut to Hamas), per placare la diffidenza degli arabi e per soddisfare le richieste degli Stati Uniti, decisi a esercitare la loro influenza sulle parti. Nel salone, accanto alle bandiere egiziane, giordane, israeliane e palestinesi qualcuno aveva sistemato anche un minuscolo vessillo a stelle e strisce, che però durante il vertice non è stato inquadrato dalle telecamere. Forse era stato rimosso.
Non vi è stato, in nessun momento, il timore di un fallimento. Anche perché Sharon, nel suo discorso, si è spinto oltre le previsioni anticipate dalla stampa israeliana. Ha confermato il suo impegno per il ritiro da Gaza, spiegando che all’inizio si trattava di una « decisione unilaterale » .
All’inizio significa che l’operazione potrà ora essere coordinata con l’Anp. Questo perché il ritiro « può aprire la strada alla realizzazione della Road Map, nella quale siamo impegnati e che intendiamo realizzare » .
La Road Map è il percorso verso la pace, sostenuto dal Quartetto ( Usa, Ue, Onu e Russia) e considerato, fino a poche settimane fa, uno dei tanti progetti defunti ancor prima di emettere i primi vagiti.
Invece no. La Road Map è come risorta. Tutti hanno detto di volerla rispettare e di non a v e r l a t r a d i t a .
L’uscita di scena di Yasser Arafat, deceduto nello scorso novembre, ha insomma ricreato le condizioni per far ripartire il negoziato: senza promesse roboanti e sterili, ma con la convinzione di esaltare anche i piccoli passi. Sempre Sharon, concludendo il suo discorso, che non è esagerato definire storico, si è rivolto non soltanto « ai vicini palestinesi, ai quali assicuro la nostra genuina volontà di rispettarne il diritto a vivere nell’indipendenza e con dignità » , negando poi « qualsiasi desiderio di governarli e di controllare il loro destino » ; ha parlato agli israeliani, ricordando « che ci aspettano passi difficili e controversi, ma non dobbiamo perdere questa opportunità » . Infine ai leader arabi: « Diamoci la mano per creare una nuova atmosfera di apertura e tolleranza in questa regione » .
La prima risposta l’hanno data, congiuntamente, sia il presidente egiziano Mubarak sia re Abdallah di Giordania, decidendo di far tornare a Tel Aviv i rispettivi ambasciatori, che erano stati richiamati per protesta all’inizio della seconda Intifada.
Un passo che ha spinto il premier ad invitare formalmente il raìs e il sovrano a Gerusalemme. La risposta non è stata un no, ma neppure un sì.
« E’ ancora presto » , ha detto un diplomatico egiziano. E il ministro degli Esteri Silvan Shalom ha rivelato che il governo « è in contatto con nazioni arabe del Golfo Persico e del Nord Africa per avviare relazioni con Israele » .
Le calorose strette di mano che hanno aperto e chiuso questo vertice sono più di una promessa. L’atmosfera di fiducia reciproca, dopo anni di rancori e sospetti, è il vero vincitore di questo summit.