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29 Giugno 2006

Rutelli: politica estera, si rispettino i patti

Autore: Francesco Verderami
Fonte: Corriere della Sera

«Questo governo non ha potuto contare nemmeno su un giorno di luna di miele, ha dovuto subito mettersi in trincea, affrontare i gravi problemi lasciati in eredità dal Polo. Ma le difficoltà ci temprano, e le aspettative di chi sostiene che cadremo presto ci aiuteranno a restar compatti nei momenti che contano». E dopo appena due mesi, «i momenti che contano» sono già arrivati per l’esecutivo, il vice premier Francesco Rutelli ne è conscio, e ritiene che il centro- sinistra saprà evitare i pericolosi scogli sulla politica estera e sulla politica economica. Sebbene, dopo aver scritto 282 pagine di programma, pronti e via si è diviso: sulla Tav c’è il no dei Verdi, sull’Afghanistan c’è il no del Pdci, sulla manovra c’è il no del Prc…
«Siamo, è vero, una coalizione complicata, ma in ogni governo di coalizione sono fisiologiche posizioni diverse», spiega il leader della Margherita e ministro della Cultura: «Sono però certo che arriveremo a una sintesi, esattamente come siamo riusciti a farlo all’inizio della legislatura sugli appuntamenti molto delicati delle elezioni alle cariche istituzionali. Insomma, taglieremo i traguardi che ci siamo prefissi. A patto però che sia chiara una cosa: noi abbiamo sottoscritto un compromesso trasparente con la sinistra radicale, così come Berlusconi fece con Bossi, e quel compromesso va reciprocamente rispettato».


Trova che così finora non è stato?
«Sto dicendo che io, per esempio, avrei preferito un’exit strategy più graduale dall’Iraq, ma ho rispettato l’intesa che si era raggiunta nella coalizione. Allo stesso modo però nessuno può pretendere che l’Italia oggi si distacchi da una linea di politica estera cinquantennale, una linea di tradizione e di responsabilità largamente condivisa».


Insomma, la sinistra radicale non può chiedere il ritiro della missione militare in Afghanistan.
«Quella missione fa parte delle responsabilità internazionali che ci siamo assunti, ed è in sintonia con l’articolo 11 della Costituzione che stabilisce l’attribuzione di sovranità alle organizzazioni internazionali: in questo caso l’Onu e la Nato. Noi dall’Afghanistan non intendiamo ritirarci. Non c’è dubbio che in quel Paese esistono problemi seri e anche per questo dobbiamo restare: per aiutare la crescita di istituzioni ancora fragili, per contrastare i signori della guerra e le organizzazioni terroristiche, per combattere il traffico della droga. Sono tutte buone ragioni che devono portarci a proseguire la missione, e consolidarla, non certo a interromperla».


Viste le defezioni che si preannunciano al Senato, avrete forse bisogno dei voti del Polo: come dire che l’Unione non riesce a essere compatta sulle questioni strategiche.
«Noi abbiamo sottoscritto un patto davanti agli elettori, ed è ovvio che l’Unione dovrà essere autosufficiente in Parlamento anche sulla politica estera».


Altrimenti c’è l’Udc pronta a sostenervi: ma così quanto potreste durare?
«Io ho parlato di maggioranza autosufficiente, e la sinistra radicale dovrà farsi carico del patto. Si potrebbe parlare di allargamento della maggioranza se i voti dell’Udc fossero sostitutivi. Se invece saranno aggiuntivi non ci sarà nulla di anomalo. Salvo l’Iraq, d’altronde, dai banchi dell’opposizione io e tutto l’Ulivo abbiamo votato a favore delle missioni militari italiane. E sarebbe singolare se ora il Polo, smentendo la propria politica, votasse contro per pura faziosità. Per questo ho apprezzato la coerente posizione dell’Udc».


È singolare che oggi il governo dell’Unione, dopo aver protestato contro il governo Berlusconi per il ricorso eccessivo al voto di fiducia, debutti alle Camere con due voti di fiducia.
«Dopo l’atteggiamento squadristico tenuto al Senato dalla Cdl, e dopo l’assurdo ostruzionismo alla Camera, la maggioranza farà valere le proprie prerogative con grande determinazione. Non pensavo che all’indomani della sconfitta referendaria si comportassero in modo così rozzo e greve. Altro che dialogo».


Vuol dire che non ricercherete intese sulle riforme, come invece vorrebbe il capo dello Stato?
«Abbiamo già detto che non faremo riforme a colpi di maggioranza, e ricercheremo in maniera coerente il confronto sulla revisione del Titolo V della Costituzione, sulle modifiche alla legge elettorale, sulla riduzione del numero dei parlamentari, e su altre distinte materie che è possibile condividere. Ma senza far più ricorso a commissioni come la Bicamerale. Meglio l’articolo 138, che pensare a vaste modifiche disomogenee».


Un bel modo per mettersi a discutere.
«C’è modo e modo, in effetti: tutto sta a come ci si propone. In commissione alla Camera, per esempio, da ministro della Cultura, ho riscontrato ieri anche negli esponenti dell’opposizione la volontà di convergere su temi di interesse nazionale. Ecco un modo giusto. Sulle riforme, dobbiamo invece tenere bene a mente il risultato referendario».


Prodi sostiene che quella vittoria sia dovuta al popolo delle primarie, non ai partiti.
«In effetti vedo una similitudine tra il risultato inatteso delle primarie e il referendum con la sua partecipazione sopra il 50% e la netta vittoria del “no”. Ma questo risultato deve far riflettere l’Unione».


In che senso?
«Perché se gli italiani sono stati saggi il 25 e 26 giugno, non si può dire che non lo siano stati in altri casi. Questi sono gli stessi elettori che due anni fa hanno respinto l’idea di estendere l’articolo 18 dello statuto dei lavoratori alle piccolissime imprese. Sono gli stessi che un anno fa, in occasione della consultazione sulla fecondazione assistita, hanno detto a chiare lettere che i temi di bioetica sono troppo delicati per essere decisi con un colpo di accetta referendario».


L’accenno al referendum sulla fecondazione assistita non sarà preso bene dai quei suoi alleati che si sono battuti contro la legge varata dal Polo.
«Ma questo è un dato di fatto. E gli elettori italiani sono sempre gli stessi. Quelli che in tre casi su quattro hanno scelto amministratori locali dell’Unione. E anche gli stessi che alle Politiche ci hanno dato una maggioranza molto… leggera».


Perché non si fidano molto… di voi?
«Bisogna interpretare questo lungo ciclo elettorale, e capire che se si vuole allargare la maggioranza oltre il 50,1% ottenuto ad aprile, dobbiamo essere più incisivi su temi come la politica estera e la politica economica. E seguire la linea che fu tracciata in questi due campi da Carlo Azeglio Ciampi, con il consenso schiacciante degli italiani».


Invece si avverte una forte ritrosia a seguire le proposte del ministro dell’Economia, mentre la Corte dei Conti denuncia un impoverimento del Paese.
«Non è così. Noi saremo coerenti con gli impegni presi: nel Dpef sarà indicato il taglio di cinque punti delle tasse sul lavoro a partire da gennaio. Contemporaneamente presenteremo misure serie per il risanamento della finanza pubblica. Punteremo a una maggiore concorrenza sui mercati e nei servizi, una migliore tutela dei consumatori, e una maggiore equità fiscale. Il nostro obiettivo di legislatura sarà il ritorno alla crescita economica».


Intanto, visti i tormenti quotidiani del governo, è scomparso il tormentone quotidiano sul Partito democratico.
«Noi e i Ds siamo già all’opera con Prodi per definire il percorso che ci porti ai nostri rispettivi congressi, con l’obiettivo di varare entro questa legislatura il nuovo soggetto politico».


Non pensa che il tramonto del berlusconismo farà tramontare anche questo modello bipolare?
«Francamente vedo Berlusconi saldo in sella. È stato sconfitto, ma mi pare comandi sempre lui nel Polo».


Prodi invece, anche nella scelta del direttore generale Rai, appare sempre scavalcato dai partiti.
«Se abbiamo vinto tutti gli appuntamenti elettorali, si vorrà dare anche al premier il riconoscimento che merita?».