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25 Marzo 2004

Riforma grande solo nei difetti

Fonte: Corriere della Sera

ROMA – E’ stata una corsa frenetica contro il tempo. Vittoriosa (la corsa). Bossi aveva stabilito motu proprio che la riforma costituzionale che include la sua bramatissima devolution doveva essere approvata «incontaminata» al Senato entro e non oltre giovedì 25 marzo (sennò guai). E così ieri è stato. Tutti al galoppo, minuti contati, per accontentare la Lega. Ma, leghisti a parte, nessuna persona seria e sensata dovrebbe essere contenta. Sul federalismo bossiano una larghissima maggioranza di costituzionalisti ha sempre espresso montagne di perplessità e di riserve. Vedi, per esempio, l’indagine conoscitiva effettuata al Senato tra l’ottobre e il dicembre 2001; indagine della quale il Bossismo si è fatto un baffo.

Di baffo in baffo, l’altro giorno, il 22, Sabino Cassese ha scritto sul Corriere che «la questione del federalismo si sta caricando di una gran quantità di contraddizioni», che poi elenca perché si deve sapere «in quale ginepraio ci stiamo andando a ficcare». È il minimo che si possa dire. E persino la ferrea disciplina di maggioranza imposta da Berlusconi in questa occasione non riesce a impedire che il vice-presidente del Senato Fisichella, di An, continui a esprimere il suo dissenso (di studioso), e che il ministro della Difesa Martino (che nasce economista) scriva che le proposte federaliste «produrranno con ogni probabilità l’aumento della fiscalità, della spesa pubblica e della complessità burocratica, amministrativa e istituzionale». Paolo Mieli commenta: «Stiamo freschi». Sì, freschissimi. Stiamo sfasciando un Paese che di sfascio costituzionale non ha certo bisogno.

Ma è ancora peggio di così. Perché la riforma della Costituzione approvata ieri dal Senato non verte soltanto sulla forma di Stato (il federalismo), ma investe anche la forma di governo, e cioè la trasformazione di un sistema parlamentare in un diversissimo sistema di premierato elettivo, e pertanto di premierato di tipo israeliano (già defunto in Israele ma che a Berlusconi piace lo stesso). Il relatore D’Onofrio (Udc) si affanna a smentire che il disegno di legge affidato alle sue cure sia di tipo israeliano. Se lo era – argomenta – nel testo di iniziativa governativa, ora non lo è più nel testo da lui riproposto.

Davvero? Anche a costo di tediare il lettore, questo è un punto che deve essere chiarito perché ne dipende tutta la interpretazione del nuovo sistema di governo. Il testo di partenza, articolo 26, conteneva questo disposto: che la candidatura alla carica di primo ministro è assicurata dalla «pubblicazione del nome del candidato primo ministro sulla scheda elettorale». Il che ammetteva senza infingimenti che eravamo al cospetto di una elezione diretta; ma perciò stesso esponeva il progetto a un diluvio di critiche. D’Onofrio, che è un ex dc di lunga navigazione, capisce che se cancella queste due righe tutto si annebbia; e quindi tutto va a posto. Abracadabra.

Ma no. Rileggiamo assieme tutto il testo residuo dell’articolo 26: «La candidatura alla carica di primo ministro avviene mediante il collegamento con i candidati alla elezione della Camera dei deputati secondo modalità stabilite dalla legge. La legge disciplina l’elezione dei deputati in modo da favorire la formazione di una maggioranza collegata al candidato alla carica di primo ministro. Il presidente della Repubblica, sulla base dei risultati delle elezioni alla Camera dei deputati, nomina il primo ministro». Il trucco è di rinviare e far dire alla legge ordinaria quel che non si dice più nella legge costituzionale. Ma la sostanza (annebbiata) resta che ci viene propinato un premierato diretto di tipo israeliano ingigantito nei suoi difetti. Chi lo vota deve capire che cosa sta votando.

Giovanni Sartori