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30 Aprile 2007

Referendum, ridateci il Mattarellum

Autore: Sebastiano Messina
Fonte: La Repubblica

Nove parole. Basterebbero nove parole, per risolvere il
dannatissimo rebus della riforma elettorale, un groviglio di veti, ricatti e
minacce, un vicolo cieco in fondo al quale non c’è – al momento – nulla di
buono. Non bisogna farsi ingannare dai sorrisi smaglianti di Romano Prodi e
di Umberto Bossi al termine del loro lungo faccia-a-faccia nella prefettura
di Milano.

Il presidente del Consiglio, secondo quanto ha rivelato il
leghista Roberto Calderoli, ha garantito che la riforma elettorale sarà
votata entro la fine di luglio da almeno un ramo del Parlamento. E questa
sarebbe senz’altro una buona notizia, se non fosse che lo stesso Calderoli –
l’indimenticato reo confesso dell’abominevole vigente legge elettorale, da
lui stesso definita «la porcata» – ha spiegato che si partirà proprio dalla
proposta che lui ha depositato per correggere la sua precedente
invenzione.

Cosa propone, adesso, Calderoli? Un sistema nel quale il 90 per
cento dei seggi sono assegnati con la proporzionale, e il restante 10 per
cento viene attribuito alla coalizione vincente con un listino nazionale nel
quale l’elettore potrà dare anche una preferenza per il capo del governo.
Può, questa soluzione, risolvere il problema? Dipende. Se l’obiettivo è solo
quello di evitare il referendum, probabilmente sì. Se invece si vogliono

correggere le storture della «porcata», assolutamente
no.
Scomparirebbero, per esempio, le liste bloccate grazie alle quali i
partiti hanno tolto agli elettori ogni potere di scelta sui parlamentari?
No, le liste bloccate resterebbero così come sono. L’unica preferenza che
l’elettore potrebbe esprimere sarebbe quella per il candidato premier, con
un meccanismo tutt’altro che limpido e dalla dubbia compatibilità con
l?articolo 92 della Costituzione («Il presidente della Repubblica nomina il
presidente del Consiglio dei ministri»).

In compenso, il bipolarismo
sarebbe mantenuto, grazie al premio di maggioranza, e sarebbe reintrodotta
anche una soglia di sbarramento. Ma proprio per questo è lecito dubitare che
i partiti–mignon, oggi decisivi per la risicata maggioranza su cui conta il
governo Prodi, rinuncino a mettersi di traverso, bloccando alla fine anche
questa riformetta.
A quel punto, si andrebbe al referendum. Che è uno
straordinario strumento nelle mani dei cittadini, oltre che l’insostituibile
pungolo senza il quale la pratica della riforma elettorale non sarebbe
neanche stata aperta. Eppure stavolta il referendum non consegnerebbe al
Paese una legge capace di fargli fare un salto di qualità istituzionale,
come invece avvenne con i referendum del 9 giugno 1991 (abolizione delle
preferenze) e del 18 aprile 1993 (introduzione del maggioritario).

Cosa
cambierebbe, infatti, se passasse il meccanismo referendario? La vera novità
sarebbe l’assegnazione del premio di maggioranza non alla coalizione
vincitrice ma alla lista più votata. Sulla carta, sarebbe un formidabile
incentivo al bipartitismo, visto che la lista più forte – il Partito
Democratico, per esempio – conquisterebbe, grazie al «premio», ben 340
seggi. Solo sulla carta, però. Perché è ovvio che, pur di strappare quel
premio agli avversari, i partiti del centro–destra si coalizzerebbero in
solo listone.
E un minuto dopo la stessa cosa farebbe il
centro–sinistra.

Avremmo dunque una competizione tra due listoni, ma sarebbe
un bipartitismo solo apparente. Perché i partiti–mignon, dopo aver preteso
le loro generose quote di candidature blindate, si ricostituirebbero nel
nuovo Parlamento, esattamente con la stessa forza di ricatto che hanno oggi.
Non solo, ma i cittadini che nel frattempo avranno sostenuto la battaglia
per il referendum si ritroverebbero sulla scheda elettorale non tante liste
bloccate, ma due listoni bloccati, entrambi con la formula «prendere o
lasciare». Non sarebbe una piacevole sorpresa.

A Segni, a Guzzetta, a
Parisi, a Fini, a Barbera, a Martino e agli altri referendari tutto questo è
ben chiaro. E infatti sono loro i primi a chiedere al Parlamento non una
riformetta ma una buona legge maggioritaria, considerando il referendum «una
pistola carica sul tavolo delle riforme», per usare la felice definizione
coniata da Giuliano Amato. Ma il Parlamento, come abbiamo detto, sembra
bloccato dai veti reciproci, al punto che il ministro Chiti non ha potuto
tirar fuori dal suo cilindro nient’altro che una soglia di sbarramento a
futura memoria, da introdurre solo nel 2016: tra nove anni.
Eppure, una
via d’uscita c’è. Ed è lì, sotto gli occhi di tutti. Una vera riforma fatta
con una legge–lampo, un testo di appena nove parole: «La legge 21 dicembre
2005 n. 270 è abrogata». Tutto qui? Sì, tutto qui. Perché basterebbe che il
Parlamento cancellasse con un tratto di penna la legge–porcata di Calderoli,
che a sua volta cancellava il sistema elettorale precedente, per tornare
immediatamente alla legge Mattarella, quella che fu scritta nel 1993 – come
disse l’allora presidente Scalfaro – «sotto dettatura del corpo elettorale»,
ovvero dell?Italia che aveva detto sì al maggioritario.

Sarebbe una
soluzione eccellente, per cinque buoni motivi.
1) Quel sistema ha dimostrato
di garantire il bipolarismo e di funzionare bene, senza assicurare a nessuno
privilegi occulti: tanto è vero che ha permesso cinque anni di governo prima
al centro–sinistra e poi al centro–destra.
2) Si tornerebbe ai collegi
uninominali come luogo principe della scelta dei parlamentari – come avviene
in Gran Bretagna, Stati Uniti, Germania, Francia e Spagna – ripristinando un
meccanismo che ha portato solo effetti benefici nelle campagne elettorali e
nel rapporto tra cittadini ed eletti.
3) Sarebbe eliminato l’obbrobrio delle
liste bloccate, dei parlamentari imposti dai partiti agli elettori, senza
alcuna possibilità di scelta, evitando di ricorrere allo strumento ormai
corrotto del voto di preferenza.
4) Verrebbero rispettati sia il desiderio
dei partiti maggiori di far valere la propria forza, sia quello delle
formazioni minori di guadagnarsi una rappresentanza in Parlamento (a patto
di superare una ragionevole soglia di sbarramento del 4 per cento). 5) Si
disinnescherebbe immediatamente la bomba a orologeria del referendum, perché
di fronte all’importanza di una simile novità – sulla Gazzetta Ufficiale, si
capisce – il comitato referendario sarebbe certamente felice di deporre la
sua «pistola carica».

Sembra un uovo di Colombo, ma la soluzione è lì, a
portata di mano. Basterebbe solo che il presidente del Consiglio la facesse
propria, per uscire dal pasticcio del bricolage istituzionale, smentendo con
un solo gesto chi lo accusa di non volere la riforma, di discuterne a vuoto
con l’unico obiettivo di allungarsi la vita. Basterebbe che il governo la

mettesse sul tavolo, per smascherare i falsi riformatori, i gattopardi dei
giorni nostri. Quelli che fingono di voler cambiare qualcosa solo perché
vogliono che tutto resti com?è.
Quelli che hanno lavorato sottobanco per
tornare alla vecchia proporzionale e aspettano solo il momento buono per
dare il colpo decisivo al fragile bipolarismo italiano. E naturalmente i
padri–padroni dei partiti–mignon, che pensano solo alla sopravvivenza del
proprio guscio di potere, infischiandosene di tutto il resto.

Nove
parole, per tornare a una buona legge. A patto di scriverle subito, prima
dell’estate, prima che sia troppo tardi. Per quanto paradossale possa
sembrare, per una volta i veri riformisti devono essere reazionari: tornando
indietro, qualche volta, si può fare un grande passo avanti.