Il direttore del «Foglio», Giuliano Ferrara. Era cominciata, come sempre comincia in questi casi con uno scambio di colpi. Di là Giuliano «Porthos» a infilzare la scelta «pigra» dei vescovi di invitare all’astensione, di qua Dino «Aramis» a rintuzzarlo: «Ti smentiremo!». È finita con loro due abbracciati in una vittoria che, per i numeri e l’umiliazione inflitta agli avversari, non se la sognavano neanche. Come mai si sarebbero immaginati, solo qualche tempo fa, che un giorno o l’altro si sarebbero trovati a tirar di scherma dalla stessa parte. Anche in un panorama variegato qual è il mondo del giornalismo, della politica e della cultura italiani, infatti, è difficile trovare persone che si somiglino poco quanto il direttore del Foglio Giuliano Ferrara e quello di Avvenire Dino Boffo. Figli di due storie e due pianeti lontani anni luce.
Il primo fu un embrione così rosso fin dal principio che invece di Maurizio Ferrara, direttore dell’Unità e creatore di deliziosi sonetti, avrebbe potuto avere come padre (chissà con quali risultati) l’ex segretario di Palmiro Togliatti Massimo Caprara, che racconta d’aver declinato la richiesta del partito perché sposasse appunto Marcella, l’indimenticabile mamma di Giuliano, che del Migliore era la segretaria. Il secondo così bianco, raccontano ridendo gli amici, che il padre camionista (coincidenza: come il papà di Angelo Scola) era l’unico a girare con l’autocarro tappezzato con una sola donnina: la Madonna.
Dice ancora la biografia parallela che il primo, nato a Roma e battezzato solo (non si sa mai: ma niente comunione né cresima!) per iniziativa di non so quale parente, fece le prime scuole a Mosca dove apprese i primi rudimenti di quella che sarebbe stata la sua prima chiesa, quella comunista, con tale entusiasmo che giocava per casa urlando «budet revolucija!» (arriva la rivoluzione!) per poi affinare la dottrina, al ritorno in patria, nel culto del compagno Edo D’Onofrio, «er più comunista de li romani, er più romano de li comunisti». Un’infanzia assai diversa da quella del secondo che, nato nel borgo di Onè di Fonte, adagiato sotto i colli asolani, crebbe attaccato alle tonache dei preti: chierichetto, dottrina, processioni, ping pong all’oratorio, novene mariane, cori in latino («Eia ergo, advocáta nostra, / illos tuos misericórdes…») e scuola dai preti al mitico istituto "Filippin" di Paderno del Grappa.
Un punto sì, lo segnarono in comune. Ciascuno nella propria chiesa, furono
tirati su per entrare a far parte della classe dirigente. E se il primo finì «naturaliter» nel Pci, che lo mandò a farsi le ossa a Torino cioè nella capitale italiana del mondo operaio, l’altro fu altrettanto naturalmente mandato a farsi le ossa a Roma, dove finì ancora giovanissimo a capo dell’Acr (azione cattolica ragazzi) che allevava i lupetti, i pionieri dell’associazionismo religioso. Ma si sa: c’è chiesa e chiesa. E quella rossa, a un uomo attratto ora dai messia e ora dalle eresie qual è Giuliano, diventò sempre più insopportabile. Fino a farlo rompere con la «religione» di tutta la famiglia per abbracciare prima in Craxi e poi in Berlusconi gli uomini più invisi agli ex compagni.
Guadagnando tanti insulti da spingere il padre Maurizio (che l’avrebbe difeso sempre con un leone difende il cucciolo: «Se ha tradito qualcosa, sono cose che meritavano di essere tradite») a scrivere un sonetto dolcissimo: «Quanno li fiji imboccheno la svorta / e pijeno ’na via che t’è negata / puro si dentro c’hai ’na cortellata / è guera perza piagne su la porta». Dino no: lui, nella sua chiesa, è rimasto sempre. Salendo di gradino in gradino, di sagrato in sagrato, di pulpito in pulpito. Prima responsabile trevisano dell’Azione cattolica, poi direttore del diffusissimo settimanale diocesano La vita del popolo , poi vicedirettore di Avvenire e infine (da ben 11 anni, durante i quali ha fatto spesso assumere al quotidiano il ruolo di faro anche politico dei cattolici dopo il crollo della Dc) direttore non solo del giornale della Cei ma anche della televisione «Sat2000» e del network radiofonico «BlueSat».
Il che fa oggi di lui l’uomo forte di tutta l’informazione cattolica italiana. Un trono sul quale, dicono gli avversari, siede grazie a Camillo Ruini, al quale il nostro ha trovato perfino la perpetua Pierina. Una sottolineatura maliziosa ma inesatta. Se Boffo è una «creatura» di Ruini, dice la leggenda, Ruini è in qualche modo una «creatura» di Boffo: fu Dino infatti, quand’era il responsabile giovanile dell’Ac, a suggerire come padre spirituale del suo gruppo quel segaligno prete emiliano. Certo è che, diversi per scelte di vita (Giuliano è sposato, Dino è una specie di prete laico), per hobby (Giuliano ha un guscio di noce al mare, Dino ama la montagna), per attenzione al look (Giuliano mangia e si veste e si pettina come gli pare, Dino ha un guardaroba giovanilista e ha sostituito la barba con una mosca sul mento che i suoi redattori dicono ridendo somigli «alla passerina delle modelle di Penthouse») i due hanno un approccio col giornalismo da battaglia non molto dissimile. Certo, Giuliano tracima come
una cascata e Dino scorre apparentemente placido come un fiume, Giuliano può alzar la voce ringhiando e Dino parla sempre a voce bassa con gli occhi
chiusi come un monaco concentrato sul breviario, Giuliano pare il grasso, gaudente e irruento Porthos e Dino è identico all’Aramis che tra un duello e
l’altro studia da prete. Ma entrambi sono capaci di ire, scatti e sanguinosi
affondi improvvisi.
Se quelli di Giuliano sono noti (bollò Scalfaro come «la pomposa caricatura della dignità istituzionale», liquidò Maroni come un «venditore di tappeti falsi» e strillò che «se il pericolo principale è costituito da un ceto togato che vuol sostituire le regole della democrazia, viva i banditi!») non meno duri sono stati gli affondi di Dino. Come l’attacco a Violante «impresario di pompe funebri», ai costituzionalisti critici con l’astensione come Michele Ainis («C’è un livello oltre il quale va pagato un dazio. Il dazio della gogna, quanto meno»), Luca di Montezemolo («i nuovi padroncini») o ancora ai giornali rei di non avere appoggiato la scelta dei vescovi sul referendum: «Pagine criptate, ammuine chiare». Certo è che nella loro battaglia si son buttati a capofitto, hanno attaccato, hanno vinto. Forse non si ritroveranno più, dalla stessa parte. Ma oggi, per loro, è una giornata da segnare sul calendario.