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2 Febbraio 2005

Quest’Italia ricca e povera

Autore: Carlo Bastasin
Fonte: La Stampa

L’Italia è ricca o è povera? Non è quello che tutti ci chiediamo? Da un lato ogni stipendio si è immiserito, dall’altro ogni tetto di ogni edificio si è coperto d’oro. Il reddito non cresce, ma la ricchezza si moltiplica: apparentemente il benessere italiano è un mistero.
Di questo mistero sentiamo spiegazioni poco soddisfacenti. Le interpretazioni politiche sono parziali: da sinistra si sottolinea il declino del Paese nei paragoni internazionali, da destra si è colpiti dalle vistose ricchezze. Altrettanto vaghe sono le interpretazioni sociologiche: gli italiani sono inclini a falsificare i propri conti, a evadere, a immergersi nel nero e quindi a nascondere il loro reale benessere, inoltre stanno invecchiando, quindi lavorano meno ma accumulano di più. E sulla povertà, perfino gli istituti di statistica litigano sui dati «percepiti» o sulle soglie. Sono tutte spiegazioni parzialmente utili, ma discutibili come ogni lettura psico-sociale.

Eppure esiste un fenomeno misurabile che spiega la doppia natura, ricca e povera, dell’Italia: stiamo vivendo il completamento di una fase ventennale di discesa dei tassi d’interesse, ormai pari all’inflazione e cioè – in termini reali – pari a zero, se non negativi. Il calo del costo del denaro ha alimentato, da solo, le rivalutazioni successive della ricchezza delle famiglie italiane, proprio come è avvenuto in modo più evidente negli Stati Uniti, dove un primo boom azionario negli Anni 90 è stato prolungato da Greenspan con tassi d’interesse calanti, fino a gonfiare la «bolla» della new economy, a cui si è posto rimedio con tassi ancora più bassi che hanno gonfiato nuove «bolle»: prima quella delle obbligazioni e poi quella delle case, alimentata dai convenienti mutui immobiliari.

Mentre negli Usa il denaro a costo zero ha sostenuto l’economia, in Italia si è aperta una forbice tra reddito e ricchezza: dagli Anni Novanta il divario cumulato nei tassi di crescita è circa del 40%. E’ proseguito il calo della produttività italiana, di un terzo inferiore a quella Ue e metà di quella Usa, si è inaridito il flusso di cedole del debito pubblico, percepito come reddito dalle famiglie, ma si è gonfiata l’inflazione delle attività finanziarie e la bolla speculativa sugli immobili.
Mentre l’Italia produttiva si impoveriva, i tassi sempre più bassi funzionavano da narcotico in tre modi: gonfiando la ricchezza delle famiglie (che solo per un decimo influenza i consumi); riducendo la necessità di politiche pubbliche di bilancio restrittive (consentendo tasse relativamente meno alte); lasciando sopravvivere sul mercato imprese (spesso indebitate) che con tassi più alti sarebbero andate in crisi.

Ed ecco la fotografia dell’Italia «ricca» di oggi: famiglie con crescenti ricchezze immobiliari; un governo che può evitare di alzare sensibilmente le tasse; imprese che stanno a galla ma non investono per timore del futuro. Di questa realtà fatichiamo a capire i meccanismi strutturali (fino a invocare la psicologia), proprio perché è determinata da un elemento non strutturale, ma congiunturale: la fase, pur lunga, di calo del costo del denaro.

Se come è prevedibile entro pochi anni i tassi torneranno a un livello «neutrale», doppio rispetto a quello attuale, anche sulla spinta dei tassi americani, molte famiglie faticheranno a corrispondere i mutui (le banche dovrebbero pensarci già ora…), azioni e obbligazioni ne risentiranno e le ricchezze potranno sgonfiarsi. Per finanziare il debito, il governo dovrà alzare le tasse in una fase di debolezza, mentre le imprese dovranno ristrutturarsi rapidamente e dolorosamente per recuperare la capacità di profitto. Nel volgere di poco tempo – qualunque sia il governo in carica – la ricchezza e la povertà italiana potrebbero rivelarsi i due lati della stessa medaglia che sta volteggiando pericolosamente in aria.