NON basta dire che la riscrittura costituzionale appena approvata durerà
solo lo spazio di una campagna elettorale. E che servirà solo per appagare la
tradizionale pulsione separatista dell´elettorato “leghista”, ieri esaltato
dalla teatrale ricomparsa del suo leader a Roma: con una simbolica presa di
possesso dell´intero progetto. Né dire che già in questo 2006, politicamente
ormai “cominciato”, sarà cancellata dal referendum. E´ tutto vero ma è pur vero
che, benché destinata al fallimento finale, questa impresa contro la
Costituzione ha già prodotto importanti effetti di danno.
Ha, innanzitutto, svelato la insopportabile fragilità delle garanzie
procedurali a difesa della Costituzione. Ha dimostrato che a nulla vale la
barriera della “rigidità” costituzionale: se poi, la forzatura dei regolamenti
parlamentari consente alla maggioranza di degradare i tempi e di eliminare il
contraddittorio (naturalmente il contraddittorio vero: quello che è utile quando
la decisione non è stata già scritta).
Ha poi dato l´immagine di un Paese a geometria variabile, “al pongo”.
Quello in cui forma di Stato (il rapporto tra Stato centrale e autonomie
territoriali) e forma di governo (il rapporto tra governo e parlamento) sono
declassate ad oggetto di politiche del giorno per giorno. Si è annullata ogni
differenza tra l´indirizzo politico di legislatura (quello che obbedisce alle
necessità dei tempi e delle variabili maggioranze) e il quadro istituzionale. E´
diventato cioè mutevole anche quello che dovrebbe essere il perimetro
consensuale entro cui fluisce la vita della Repubblica, il costante punto di
riferimento degli apparati pubblici e anche la carta di identità della
fisionomia italiana dentro l´Unione europea. Di tutte le crisi che attraversa il
Paese, questa, provocata da un lifting costituzionale ad immagine di
maggioranza, è la peggiore: per le incertezze permanenti che provoca, per il
precariato istituzionale che determina. Si sono messi in discussione,
soprattutto, i legamenti dell´unità nazionale. Intesa non come la generica
formula introdotta nella Carta: ma come espressione di concreti (e giustiziabili
davanti alla Corte costituzionale) vincoli di solidarietà fiscale e di coesione
territoriale. Basta vedere gli effetti di annuncio già provocati dalla norma del
progetto che incoraggia il separatismo territoriale unilaterale. I 43 comuni che
vogliono staccarsi dal Veneto e il Veneto che vuole uscire da se stesso….
Basta vedere il compiacimento con cui sono state accolte le rivendicazioni di
assolutismo fiscale della Sicilia e della Sardegna, per capire che quel modello,
già difficile a giustificare per speciali esigenze, è sfruttato come forma di
tendenza per un separatismo tributario generalizzato. Può essere, insomma, che
il disegno secessionista non sia più “dichiarato”, ma certo ha trovato una
sicura e sostanziosa nicchia nell´ambiente anti-nazionale che accompagna
l´approvazione di questo progetto.
Sono perfino risuonate in Parlamento irresponsabili teorie revisionistiche
non di questo o quell´istituto, cosa del tutto legittima, ma dello spirito,
della cultura istituzionale, dello stesso patriottismo costituzionale che
animavano i Costituenti del 1948. Come se gli americani rinnegassero lo spirito
della Convention del 1787 che dette vita alla Costituzione degli Stati Uniti,
come se i francesi rifiutassero lo spirito che animò nel 1789 l´Assemblea
Nazionale nella
Dichiarazione dei diritti dell´uomo e del cittadino…
Non basterà allora il referendum a cancellare questi veleni, questi effetti
di danno già emergenti nel Paese. Solo un rigetto del governo che ha consentito
tutto questo, che ha rotto il bene della pace costituzionale fra gli italiani,
può far capire che lo stravolgimento si è arrestato, che si volta pagina. Le
date del referendum costituzionale e delle elezioni politiche saranno tra loro
vicine o lontane. Ma il giudizio sulle politiche dell´attuale governo non può
essere separato dal giudizio sulla “politica delle politiche”, che è appunto la
politica costituzionale.
Ma il giorno dopo il referendum, da dove ricominciare? La risposta è: dalla
lezione di questi ultimi anni. Essi ci hanno detto che una «democrazia
incompiuta» è piena di pericoli. E allora, prima ancora di prendere in mano le
nitide proposte avanzate dall´Ulivo per il migliore funzionamento istituzionale,
il progetto alternativo dovrà basarsi sul proposito di completare la nostra
democrazia.
Le “primarie di massa” del 16 ottobre, meglio di qualsiasi
costituzionalista, hanno indicato l´indirizzo. Ed hanno spiegato che il vero
rinnovamento ha un cuore antico: la riscoperta della “partecipazione”
repubblicana come elemento di costruzione istituzionale, così come programmato
dall´art. 3 della Costituzione del 1948.
Che cosa può significare ai giorni nostri la “effettiva partecipazione
all´organizzazione politica del Paese” secondo le testuali parole di quella
norma di quasi 60 anni fa? Un po´ ce l´hanno spiegato quei 4 milioni di
cittadini delle primarie che, nel Paese del “tengo famiglia”, hanno rinunciato
alla privacy della scelta politica e si sono fatti “schedare”: dando nome,
indirizzo, e-mail, numero di telefono, soldi, firme di adesione programmatica
per farsi coinvolgere nella organizzazione della politica.
Quei cittadini non volevano, non vogliono formare un nuovo partito:
chiedono un nuovo modo di costruire i partiti. Non vogliono fabbricare nuove
case ma ristrutturare quelle esistenti, in maniera che sia creata per loro una
porta di ingresso e una stanza permanente di consultazione.
Le primarie sono state come tutte le grandi invenzioni, una scoperta
casuale.
Sperimentate per legittimare un leader, hanno rivelato l´esistenza di
una via per democratizzare la democrazia. Ora è così possibile una pienezza di
lettura di quell´art. 49 della nostra Carta che per costituzionalizzare i
partiti, comincia dai cittadini. “Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi
liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la
politica nazionale”. Oggi quel “metodo democratico” indica anche la necessità di
coinvolgere un´area vasta di aderenti. I cittadini che hanno scelto una
professione diversa dalla politica, ma che alla politica vogliono contribuire
non solo con le mobilitazioni di piazza, non solo nel giorno delle elezioni, ma
anche nei momenti in cui la politica ha bisogno di rassicurarsi delle sue radici
popolari e della sua capacità di rappresentarle. Così “metodo democratico” vuol
dire procedimenti istituzionali di consultazione e di ingresso della nuova
categoria di “aderenti al programma di governo”, dei veri sostenitori della sua
stabilità.
Attenzione: non si tratta di reintrodurre, dopo secoli di libera
rappresentanza parlamentare, il mandato imperativo da parte della base
elettorale. Si tratta di comprendere i nuovi modi di essere della cittadinanza
attiva. Quando l´associazione per far politica può assumere forma diversa dell´
“associazione dei militanti» e può” semplicemente significare la “messa in rete”
con il partito e la coalizione al cui programma si è aderito. Un volontariato di
opinione che sperimenta l´interattività della politica e della rappresentanza.
Una realtà popolare e “italiana” così diversa dai ghetti leghisti delle
“nazionalità” regionali alle quali strizza l´occhio la riformulazione ambigua,
nel progetto, della funzione parlamentare.
Aprire i partiti, ma aprire anche il parlamento. Referendum, iniziativa
popolare, petizione. Sono tutti istituti inclusi in una visione separata e fin
qui trascurata di «democrazia diretta». Che devono invece essere riportati nel
funzionamento complessivo di una democrazia senza aggettivi. Per fare un tutto
unitario con la democrazia parlamentare.
Il referendum per l´abrogazione delle leggi un controllo popolare
indispensabile per la stessa responsabilizzazione delle Camere si trova in
coma per il troppo facile gioco di far mancare il numero minimo di votanti.
Occorre riformare per risvegliarlo. Ma ancora più decisiva dovrebbe essere la
estensione del referendum “confermativo”: dall´art. 138 (per le leggi di
revisione costituzionale, quale che sia la maggioranza parlamentare che le abbia
approvate) alle leggi elettorali, alle leggi organiche di revisione dei codici,
alla disciplina delle comunicazioni di massa, all´ordinamento dei giudici e
delle autorità indipendenti.
Tutte leggi formalmente “ordinarie” ma dense di
sostanza “costituzionale”.
L´iniziativa legislativa popolare (art. 71) chiede ormai una posizione
privilegiata nei lavori parlamentari, con precisi vincoli temporali alla
decisione, positiva o negativa che sia. La petizione alle Camere: “per chiedere
provvedimenti legislativi o esporre comuni necessità” (art. 50) sarebbe
rafforzata dalla creazione di un Mediatore parlamentare sul modello europeo per
canalizzarla e seguirla nelle accidentate procedure parlamentari.
C´è ora, poi, il progetto elettorale che sta per compiere il misfatto
politico di distruggere la rappresentanza territoriale. Si rompe, così, persino
per il Senato cosiddetto “federale”, il rapporto tra parlamentari e collegi,
lacerando il tessuto, di rapporti, di amicizie e di culture locali, intrecciato
nelle constituencies (la parola inglese che evoca il valore fondativo del
distretto elettorale). E allora, democratizzare la Costituzione significherà
anche stabilizzare in essa il ritorno alla divisione elettorale in collegi,
quale che sia il metodo di elezione richiesto.
Dall´altro lato, anche un istituto centrale del parlamentarismo come la
commissione di inchiesta parlamentare richiede ormai una riforma partecipativa:
l´ingresso, per le materie in cui non sia esclusiva la competenza dello Stato,
di rappresentanti di regioni e di comunità locali.
Dopo il referendum, insomma, bisogna di mostrare a coloro che si propongono
l´impossibile impresa di sradicare anche l´anima della Costituzione, che questa
vive ed è capace di ispirare sviluppi, insieme radicali e coerenti, per la
modernità della democrazia italiana.