20 Febbraio 2006
Quel sogno svanito con la Bolkestein
Autore: Paolo Mieli
Fonte: Corriere della Sera
Allorché giovedì scorso il Parlamento europeo ha approvato la versione
annacquata della direttiva Bolkestein si è avuta nella comunità intellettuale
una reazione di allarme di intensità pari a quella di compiacimento della
comunità politica (con rarissime eccezioni tra cui, va detto, si segnala per
lucidità di argomentazione e di visione quella dei Radicali). Curioso divorzio.
Come mai osservatori e studiosi si preoccupano così tanto? Non capiscono che
quel compromesso è pur sempre meglio di niente? La comunità intellettuale e quei
pochi politici avveduti sono inquieti non per la Bolkestein ma per qualcosa di
più generale, perché appare a loro (e a noi) sempre più chiaro che è
definitivamente svanito il sogno degli Anni Novanta e l’Europa non è più in
grado di costringerci a fare i nostri interessi. L’opinione che il mondo si è
fatta di noi è emersa a Davos dove l’economista Nuriel Roubini ci ha paragonato
all’Argentina e uno dei capi della Goldman Sachs, Jim O’Neill, ha sentenziato
che possiamo offrire solo cibo e pallone. A spulciare qua e là tra i dati si
nota che il nostro debito pubblico in rapporto al Pil che dal 1998 al 2004 era
stato in costante diminuzione (dal 117,2 al 106,5), secondo le stime più
aggiornate è salito nel 2005 di due punti percentuali scavalcando la Grecia e
toccando il record (bel record!) continentale.
Secondo i rilievi del rapporto Schneider (assai più inquietanti di quelli
Istat) l’incidenza dell’economia sommersa in percentuale del Pil ammonterebbe
qui da noi al 27% rispetto al 16,3 della Germania, al 15 della Francia all’8,7
degli Stati Uniti. Inoltre tra il 1995 e il 2004 si è avuta in Italia
un’impressionante flessione della quota di mercato delle esportazioni (a prezzi
costanti) crollate dal 4,6% al 2,9%: nello stesso periodo in Francia sono
rimaste stabili attorno al 5% e in Germania sono salite dal 10,3% all’11,8%. E
dove qualcosa è migliorato (ad esempio il tasso di occupazione passato in dieci
anni — tra il 1993 e il 2003 — dal 52,5 al 56,2%) siamo sempre ai livelli più
bassi d’Europa.
In Italia (e questo ci accomuna a Francia e Germania) un occupato
dipendente lavora in termini di ore medie annue il 16% in meno che negli Stati
Uniti. Condividiamo però con la sola Germania il record europeo di tassazione
dei redditi di impresa. E in Europa siamo tra quelli che attraggono meno
investimenti esteri: mentre Francia e Regno Unito sono quasi magnetiche, noi nel
2005 abbiamo registrato una variazione negativa rispetto al 2004 (-23%). Secondo
le stime Unctad dedicate a tale questione nella graduatoria mondiale occupiamo
il novantottesimo posto, dopo il Benin. In compenso siamo primi
nell’esportazione di cervelli, meglio conosciuta come «fuga».
Siamo al 154° scalino nella classifica mondiale della giustizia
civile: laddove in Russia occorrono in media 330 giorni per il recupero dei
crediti delle imprese, in India ne servono 425, in Brasile 546, qui ce ne
vogliono 1.390. Veniamo dopo — secondo le stime della Banca Mondiale — la
Tunisia, l’Estonia, financo la Cina. Per fortuna c’è un Paese che sta peggio di
noi: il Guatemala. Ci aspettavamo che questi problemi venissero avviati a
soluzione dalla Bolkestein? È evidente che no. È solo che giovedì scorso abbiamo
definitivamente appreso che per salvarci non possiamo più affidarci alla spinta
di un’Europa dove non può che non prevalere la tendenza a mediare. E che forse
in campagna elettorale faremmo meglio ad affrontare il tema di come farcela da
soli.