Allorché giovedì scorso il Parlamento europeo ha approvato la versione
annacquata della direttiva Bolkestein si è avuta nella comunità
intellettuale una reazione di allarme di intensità pari a quella di
compiacimento della comunità politica (con rarissime eccezioni tra cui, va
detto, si segnala per lucidità di argomentazione e di visione quella dei
Radicali). Curioso divorzio. Come mai osservatori e studiosi si preoccupano
così tanto? Non capiscono che quel compromesso è pur sempre meglio di
niente?
La comunità intellettuale e quei pochi politici avveduti sono
inquieti non per la Bolkestein ma per qualcosa di più generale, perché
appare a loro (e a noi) sempre più chiaro che è definitivamente svanito il
sogno degli Anni Novanta e l’Europa non è più in grado di costringerci a
fare i nostri interessi.
L’opinione che il mondo si è fatta di noi è emersa
a Davos dove l’economista Nuriel Roubini ci ha paragonato all’Argentina e
uno dei capi della Goldman Sachs, Jim O’Neill, ha sentenziato che possiamo
offrire solo cibo e pallone.
A spulciare qua e là tra i dati si nota che il
nostro debito pubblico in rapporto al Pil che dal 1998 al 2004 era stato in
costante diminuzione (dal 117,2 al 106,5), secondo le stime più aggiornate è
salito nel 2005 di due punti percentuali scavalcando la Grecia e toccando il
record (bel record!) continentale.
Secondo i rilievi del rapporto Schneider
(assai più inquietanti di quelli Istat) l’incidenza dell’economia sommersa
in percentuale del Pil ammonterebbe qui da noi al 27% rispetto al 16,3 della
Germania, al 15 della Francia all’8,7 degli Stati Uniti.
Inoltre tra il 1995
e il 2004 si è avuta in Italia un’impressionante flessione della quota di
mercato delle esportazioni (a prezzi costanti) crollate dal 4,6% al 2,9%:
nello stesso periodo in Francia sono rimaste stabili attorno al 5% e in
Germania sono salite dal 10,3% all’11,8%.
E dove qualcosa è migliorato (ad
esempio il tasso di occupazione passato in dieci anni, tra il 1993 e il
2003, dal 52,5 al 56,2%) siamo sempre ai livelli più bassi d’Europa.
In
Italia (e questo ci accomuna a Francia e Germania) un occupato dipendente
lavora in termini di ore medie annue il 16% in meno che negli Stati Uniti.
Condividiamo però con la sola Germania il record europeo di tassazione dei
redditi di impresa.
E in Europa siamo tra quelli che attraggono meno
investimenti esteri: mentre Francia e Regno Unito sono quasi magnetiche, noi
nel 2005 abbiamo registrato una variazione negativa rispetto al 2004 (-23%).
Secondo le stime Unctad dedicate a tale questione nella graduatoria mondiale
occupiamo il novantottesimo posto, dopo il Benin.
In compenso siamo primi
nell’esportazione di cervelli, meglio conosciuta come «fuga».
Siamo al
154° scalino nella classifica mondiale della giustizia civile: laddove
in Russia occorrono in media 330 giorni per il recupero dei crediti delle
imprese, in India ne servono 425, in Brasile 546, qui ce ne vogliono 1.390.
Veniamo dopo, secondo le stime della Banca Mondiale, la Tunisia,
l’Estonia, financo la Cina.
Per fortuna c’è un Paese che sta peggio di noi:
il Guatemala.
Ci aspettavamo che questi problemi venissero avviati a
soluzione dalla Bolkestein? È evidente che no.
È solo che giovedì scorso
abbiamo definitivamente appreso che per salvarci non possiamo più affidarci
alla spinta di un’Europa dove non può che non prevalere la tendenza a
mediare.
E che forse in campagna elettorale faremmo meglio ad affrontare il
tema di come farcela da soli.