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16 Dicembre 2005

Quel passato che non torna

Autore: Paolo Mieli
Fonte: Corriere della Sera

Tranquilli: quello a cui assistiamo non ha niente a che vedere con lo
spettacolo dei primi anni Novanta. Non ci sono magistrati in ascesa che si
sentono investiti di una missione purificatrice, non c’è una classe politica
soccombente che si autopercepisce come fosse in fin di vita, né ci sono folle
plaudenti davanti ai Palazzi di Giustizia e da casa non si fa vivo nessuno di
quello che fu definito il popolo dei fax. Nelle redazioni dei giornali ci si
limita a raccontare quel che accade badando solo a tenere accesa la luce in ogni
stanza (sottolineo: ogni stanza) del Palazzo e per quel che attiene ai commenti
i toni mi sembra siano complessivamente assai più cauti e sorvegliati di quelli
del ’92, ’93. C’è forse la differenza che oggi ad essere toccati dalle inchieste
sono, in egual misura degli altri, personaggi e formazioni politiche che
all’epoca furono soltanto sfiorate. Ed è forse questo che produce quel di più di
rimbombo e fa tremare i vetri alle finestre. In realtà nessuno, proprio nessuno,
vuole tornare indietro di dieci anni. Neanche coloro che allora giudicarono
benvenuta la tempesta innescata da Antonio Di Pietro. Perché allora tutto questo
frastuono? Qui non stiamo parlando, mi sembra chiaro, di Gianpiero Fiorani, né
della sua compagnia di amici, né dei loro referenti politici dell’una e
dell’altra sponda e neppure del Governatore della Banca d’Italia Antonio Fazio.
Ciò che c’era da dire sul loro conto lo abbiamo scritto mesi e mesi fa e ci
torneremo su soltanto quando verrà alla luce qualche dettaglio che ci
costringerà a cambiare giudizio (in meglio, spero). Per adesso è il contrario.
Quanto all’eccesso di apprensione manifestatosi in queste ore a Montecitorio,
credo che sia imputabile a un effetto ottico prodotto dalle incombenze politiche
– politiche, non quelle di governo – che ci aspettano. Quali? I maggiori partiti
delle due coalizioni si sono impegnati per la prossima legislatura a metter su
formazioni unitarie di profilo europeo, moderne, lontane dal Novecento, in grado
di raccogliere, ognuna, più del 35 per cento. Se ciò accadesse in un tempo
relativamente rapido (uno o due anni, non di più) sarebbe una salutare novità
dal momento che tale innovazione darebbe ad ognuno dei due nuovi e più grandi
partiti maggior potere di contrattazione con le estreme. Ciò che si tradurrebbe
in qualche garanzia in più per il modello di alternanza introdotto nel 1994 e di
conseguenza in maggiore stabilità per il sistema. Anche perché diluirebbe (si
spera) in un contenitore più capiente l’anomalia berlusconiana da una parte e
dall’altra alcune evidenti degenerazioni dei collateralismi.

Ma questa prospettiva genera angoscia in ciascuna delle microfrazioni
partitiche, nazionali o locali, che hanno un qualche potere di ricatto e temono
di perdere – con esso – la propria ragione di esistenza. Ed è per questo che
molti politici si sentono assediati. In realtà contavano che, passato il tempo
delle chiacchiere elettorali, l’idea di quei nuovi e più moderni partiti
tramontasse. Ma in questi ultimi giorni hanno cominciato a temere che l’effetto
combinato di “banche pulite” e dei fantomatici “poteri forti” li costringa a
cambiare davvero. Come accadde nel ’93, l’anno del loro incubo. La storia, però,
non si ripete: alle porte (ed è meglio che sia così) non c’è nessuna stagione
delle manette. Allora tocca a voi, che avete in mano ciò che resta dei vecchi
apparati o ciò che dei nuovi è già degenerato, cambiare. Se volete. Oppure
potete continuare a farvi danno come avete fatto fin qui. Potete scegliere.
Senza cercare alibi nel passato.