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14 Settembre 2008

Quando muore il cervello

Autore: Barbara Spinelli
Fonte: La Stampa

L’articolo di Lucetta Scaraffia
sull’Osservatore Romano del 3 settembre ha suscitato scandalo e proprio
per questo aiuta a pensare profondamente due esperienze di frontiera
dell’esistenza umana: il coma irreversibile, e la fine della vita che
una commissione di scienziati a Harvard ha deciso, quarant’anni fa, di
far coincidere con la morte cerebrale, senza attendere che nel paziente
sopraggiunga anche l’arresto cardiocircolatorio. È vero che quella
decisione, oggi parametro indiscusso, non cessa di turbare e ha
cambiato il nostro rapporto con la morte.

E’difficile non
pensare che essa sia stata anticipata non solo grazie a più accurate
conoscenze, ma anche per render possibili – sul piano etico, giuridico
– i prelievi di organi. I trapianti infatti avvengono in presenza di
elettroencefalogramma piatto, ma riescono pienamente solo se cuore e
respiro restano attivi grazie a apparecchi esterni: è uno dei motivi
per cui il paziente con elettroencefalogramma piatto, incamminato
sicuramente verso la morte, vien dichiarato a questo punto trapassato e
del suo corpo – tenuto in vita artificialmente – si parla come di
cadavere a cuor battente. L’articolo sull’Osservatore introduce in
tutte queste certezze la spina dell’angoscia: parole come cadavere a
cuor battente resuscitano archetipi impaurenti (morti-viventi, zombie)
e per questo la spina d’angoscia aiuta a pensare, su quel che si fa col
corpo dell’uomo. I molti testi apparsi ultimamente, di medici e
scienziati come Umberto Veronesi o Giuseppe Remuzzi, non sarebbero
stati scritti con lo stesso sforzo pedagogico se non avessero dovuto
reagire a inquietudini rilevanti.

Cosa accadde esattamente nel
’68, quando la commissione della Medical School di Harvard decretò che
la fine delle funzioni cerebrali era morte, anche se il malato
continuava a esser attaccato a macchine di respirazione e circolazione
sanguigna? Aveva a cuore il paziente, o era mossa anche da altri
interessi, di persone disperate e però estranee al morente? Scaraffia
cita Hans Jonas, il filosofo tedesco che dal ’69 combatté la
definizione di Harvard, proseguendo la battaglia fino a metà degli Anni
80. Sconfortato, scrisse poi che la guerra era perduta. In un
post-scriptum dell’85 al testo pubblicato nel ’74 (Controcorrente, in
Tecnica, medicina ed etica, Einaudi ’97) constatò: «La mia è stata
un’esercitazione in inutilità». L’articolo sull’Osservatore gli rende
omaggio: l’esercitazione non è stata vana. Vale dunque la pena
rievocare quel che disse precisamente su morte cerebrale e vocazione
medica, per estendere la discussione e ricordare alcune sue idee di
fondo, lasciate in ombra dall’articolo.

Jonas non era affatto
contrario ai trapianti, ne capiva profondamente il dramma, l’urgenza,
la natura di dono. Non è vero, insomma, che «consentendo al trapianto
si accetta implicitamente la definizione della morte data a Harvard».
Quel che il filosofo chiedeva era di dare priorità assoluta al morente,
temendo che il suo corpo venisse trasformato innanzi tempo in cadavere
e che a questo passo ne seguissero altri ben più scabrosi: i cadaveri
potevano esser tenuti artificialmente in vita a tempo indefinito, e
trasformati in banche semi-permanenti di organi, sangue, ormoni. Voleva
regole più rigide sui prelievi, sperando che essi iniziassero
immediatamente dopo lo stacco del respiratore. Dare priorità al morente
significava per lui una cosa soltanto: non essendo quest’ultimo più una
persona a tutti gli effetti, ed essendo la morte imminente e sicura,
ogni tubo o macchina dovevano essere staccati. In maniera chiara, Jonas
fa capire che se la nuova definizione della morte avesse avuto come
scopo primario quello di consentire il distacco del tubo, sarebbe stata
da lui benvenuta.

Jonas era contro l’eutanasia ma favorevole
al lasciar morire, in caso di coma irreversibile e se il paziente lo
voleva. Anche se incosciente, il moribondo ha infatti diritti
inalienabili, e «il diritto di morire è inalienabile come il diritto
alla vita». È anzi parte del diritto alla vita («l’essere è
un’avventura della mortalità»). Scaraffia sostiene che secondo la
dottrina cattolica e le direttive della Chiesa il comatoso
irreversibile è persona completa, non identificandosi quest’ultima con
le sole attività cerebrali. Jonas era convinto che l’opinione della
Chiesa fosse un’altra, vicina alla sua: in particolare la voce di Pio
XII, i cui discorsi del ’57 – su rianimazione e analgesia – sono più
volte citati nei suoi testi (nel sito Vaticano appaiono solo in
spagnolo). Nei due discorsi il Papa considera leciti sia l’interruzione
della terapia artificiale in caso di coma irreversibile, sia il ricorso
a analgesici che sollevino dal dolore pur accorciando la vita. La
definizione della morte, per Pio XII, non appartiene a Dio o alla
natura: «Spetta al medico e all’anestesista dare una definizione chiara
e precisa della “morte” e del “momento della morte” di un paziente in
stato di incoscienza» (24-11-57).
L’obiezione di Jonas alla morte
cerebrale resta tuttavia intatta, da meditare sempre. È vero ad esempio
che i requisiti che consentono di certificare la morte sono severi, in
Italia («La nostra legge è molto più attenta al donatore che
all’attività di trapianto. I requisiti \ sono ad abundantiam», scrive
Remuzzi sul Sole-24 Ore del 6 settembre). Ma altrove le pratiche sono
più disinvolte. Il rischio, scrive Jonas, è che il trapianto diventi
soverchiante, e la trasformazione del paziente in cadavere venga sempre
più anticipata. Memore dell’uso che il nazismo fece della scienza,
Jonas mette in guardia contro questo sperimentare attorno al corpo
umano sulla soglia della morte, in nome di entità astratte come la
razza, la società, o anche l’umanità. Il rapporto di Harvard creava
pericolosi equivoci, minacciando il rapporto di fiducia tra malato e
medico: «Il paziente deve esser totalmente sicuro che il medico non
sarà il suo boia, e che nessuna definizione della morte gli darà il
potere di divenirlo. \ Nessuno ha il diritto al corpo d’un altro».

Il
diritto a morire è essenziale in Jonas, e fonda la sua obiezione al
rapporto Harvard. La tecnica che simula vita è il suo avversario, e non
la convinzione che la persona resti integra con elettroencefalogramma
piatto («Non è umanamente giusto prolungare artificialmente la vita di
un uomo privato di cervello» – Il paziente immobile o comatoso «non ha
meno diritti di chi sceglie di morire rifiutando la dialisi»). Il
pericolo non è lo stacco del tubo ma il riattacco del tubo, che
simulando vita facilita trapianti. Tracciare confini evidenti tra vita
e morte è difficilissimo, aggiunge, e di una cosa è persuaso: l’arresto
cerebrale è l’anticamera della morte – è uno «stadio intermedio», una
«soglia» – e non la morte (tra la morte del tronco del cervello e
l’arresto del cuore passano 48-72 ore, scrive Remuzzi, e tuttavia per
il certificato di morte e il trapianto le ore requisite sono 6 per
l’adulto e 12 per i bambini, in Italia). Il dubbio di Jonas si riassume
così: «In realtà, abbiamo tutti i vantaggi del donatore vivo senza gli
svantaggi, che nascono dai diritti e dagli interessi del donatore
stesso, che non ha più diritti essendo un cadavere».

Giungiamo
così a quella che per Jonas è l’urgenza vera: una ridefinizione della
medicina, più che della morte. Il medico deve seguire il comandamento
fondatore (primo, non nuocere) ma imparare ad accordare tale
comandamento con l’etica. In presenza di atroce dolore non potrà non
somministrare medicine che alleviano il dolore, pur accorciando o
interrompendo la vita. In ogni momento, si guarderà dal mutare l’uomo
in cosa, in mezzo. Lo si tramuta in cosa in ambedue i casi: se non si
rispetta il suo diritto a morire, e se gli si antepongono interessi
della Società. La morte appartiene all’uomo, non all’umanità.