Alla voce
“vescovo” del suo alfabeto del 2006
(vedi “Europa” del 5 gennaio scorso), Rutelli torna sul referendum sulla
procreazione assistita. Riassumo: Rutelli domanda un’autocritica ai promotori
di un referendum votato alla sconfitta; critica chi, per esorcizzare tale
sconfitta, muove infondate accuse di ingerenza alle gerarchie ecclesiastiche;
osserva che semmai esse, più di altri, si sono mostrate in sintonia con la
maggioranza del paese; fa osservare che,
dopo la fine dell’unità politica dei cattolici, il pronunciamento delle
gerarchie su “temi sociali” sia giustamente la regola e non l’eccezione.
Penso che sia
utile riprendere gli spunti di riflessione proposti da Rutelli, che essi ci
diano l’opportunità di approfondire questioni troppo frettolosamente
archiviate. Lo farò esprimendo con franchezza consensi e dissensi. Ma
soprattutto integrando quegli spunti con altri. Convengo innanzitutto sul
rilievo critico mosso ai promotori del referendum. Io non firmai la richiesta.
Fassino sostiene che essi erano prescritti da un’esigenza di coerenza,
rispondevano all’etica della convinzione. Si dovevano fare, pur mettendo nel
conto la sconfitta. Non sono d’accordo. I referendum si promuovono se e quando
si nutrono ragionevoli speranze di vincerli. Sono uno strumento politico, non
un mero gesto testimoniale. Ed era largamente prevedibile il loro fallimento
per mancanza di quorum. Alla luce dei precedenti e per la singolare complessità
della materia, inadatta alla logica semplificatrice e binaria (sì o mo) del
referendum. Per amore di verità, si deve tuttavia notare che la legge in oggetto, a giudizio
dei più, non era e non è il massimo. Anche tra chi l’ha votata, sono molti
coloro che non hanno difficoltà a riconoscere che, in essa, figurano inutili
forzature, esorbitanti rigidità. A produrre le quali non sono estranee, nello
svolgimento dell’iter parlamentare, pressioni esterne e una nostra
inadeguatezza, un nostro ritardo in un dibattito interno (anche a Margherita)
mirato all’elaborazione di una sintesi politico-legislativa più matura,
persuasiva e suscettibile di raccogliere un più vasto consenso. Anche noi ci
siamo un po’ seduti sulla pur sacrosanta libertà di coscienza e, all’atto
pratico, su due distinte, polarizzate posizioni.
Come non riconoscere
che a spingere al referendum, quasi come atto testimoniale di dissenso, ha
concorso l’alto grado di insoddisfazione di chi è uscito sconfitto dal
confronto parlamentare? e dunque che vi ha contribuito anche una certa pigrizia
mentale e pratica, un deficit di apertura al dialogo di chi aveva i numeri
dalla propria parte? Forse Margherita, in ragione della sua natura e
composizione plurale, avrebbe potuto fare di più e meglio ciò che, un po’ in
solitudine, hanno fatto i sen. Giuliano Amato e Giorgio Tonini al Senato, con i
loro cinque qualificanti emendamenti al testo-base, tutti tesi a ricercare una
sintesi più larga e avanzata.
Ho una mia
opinione sulla disanima delle cause del vasto astensionismo. A mio avviso,
modesta è stata l’incidenza della
predicazione astensionistica da parte della CEI. Di gran lunga più decisivi
sono stati la pigrizia e l’indifferenza, il rigetto rispetto all’uso inflativo
dell’istituto del referendum e la diffidenza-paura-inquietudine (sentimenti
tutt’altro che irrazionali) verso l’applicazione delle tecniche manipolative ai
confini della vita. L’astensionismo motivato e militante, questo sì, ha incrociato
e corroborato gli altri, più decisivi fattori. Lo dico a naso, non lo posso
empiricamente provare. Come non si può provare la tesi opposta. In sede di
giudizio, non ho cambiato opinione: la proposta astensionistica della CEI,
legittima beninteso, non mi ha convinto. Essa (questo è un fatto, non
un’opinione) fu concepita come strategia più sicura ed efficace per invalidare
il referendum in quanto faceva affidamento sullo zoccolo abituale dell’astensionismo
dettato da ignavia. Ergo: a) rifletteva una sfiducia nella presa delle proprie
ragioni a sostegno del (dei) no; b) contribuiva a svilire il valore
partecipativo del referendum, che anch’io avrei evitato, ma che, una volta
indetto, meritava appunto un’attiva partecipazione. Chi ha responsabilità
politiche e, oserei dire più ancora, chi ha responsabilità educative come la
Chiesa, specie in un tempo già incline alla disaffezione e persino al
qualunquismo, sbaglia a incoraggiare comportamenti che, pur motivati circa il
merito, concorrono tuttavia a svilire/depotenziare quello che è pur sempre uno
strumento di partecipazione e di democrazia. Anche per questa ragione non ho
condiviso l’enfasi data da Rutelli alla sua personale decisione
astensionistica. Legittima, ma, ripeto, a motivo della sua esposizione e
responsabilità, come tale dotata di una valenza politica e pedagogica.
Infine, la
questione dell’ingerenza delle gerarchie. Anche su questo, non la farei troppo
facile. Sui cosiddetti “temi sociali”, in verità, le gerarchie sono sempre
intervenute, anche prima dell’esaurimento della DC. Il problema relativamente
nuovo è quello di stabilire a chi compete la responsabilità della mediazione
politico-legislativa dei pronunciamenti etici dei pastori. Risponderei con
semplicità così: ai laici cristiani politicamente impegnati e agli uomini di
buona volontà che dovessero, liberamente, apprezzarne la valenza umana
universale. E’ difficile non vedere la spinta a comprimere lo spazio affidato
alla nostra autonoma, responsabile mediazione, una spinta che si manifesta su
entrambi i fronti: dalle gerarchie che si spingono sino a dettare concrete
soluzioni politico-legislative che competerebbero a noi; e da politici e
partiti che, per lo più strumentalmente e talvolta persino goffamente, fanno a
gara per accreditarsi, presso le stesse gerarchie, come i più zelanti
interpreti delle loro istanze ideali e pratiche. Senza elaborarle e mediarle
politicamente. Non è un bello spettacolo. Non fa bene alla politica, alla
laicità dello Stato a all’aconfessionalità dei partiti, alla buona qualità
delle leggi. Non fa bene alla maturità del laicato. Non fa bene alla Chiesa,
nella quale si fa strada la fuorviante illusione che, a un di più di influenza
politica delle gerarchie, corrisponda una più alta qualità cristiana della vita
delle persone e della società. Purtroppo, non è così. Chiarisco: non si tratta di fissare limiti circa l’oggetto dei pronunciamenti dei pastori, essi possono
perfettamente decidere di prendere parola su tutto. L’auspicio – questo lo noto
da modesto cristiano – è che essi privilegino come interlocutrici le coscienze e, se si vuole, la cultura e non i vertici
politici. Da cittadino e da politico, invece, auspico che noi si eserciti tutta
intera la nostra responsabilità nel fare buona politica e buone leggi nella
città degli uomini. Perché si passi – è la parabola storica tracciata
dall’ultimo libro di Scoppola – dalla
democrazia cristiana alla “democrazia di tutti”.
Siamo soliti
richiamare anche un po’ retoricamente che, dentro Margherita, devono vivere le
molteplici tradizioni e culture che vi sono rifluite. Giusto. Ma elemento
qualificante del patrimonio storico e ideale del cosiddetto cattolicesimo democratico
è la sua sensibilità al valore della laicità delle istituzioni e dell’autonomia
politica del laicato. Un patrimonio maturato attraverso un fecondo travaglio e
impegnative battaglie. Sarebbe paradossale per noi, che in quelle battaglie
abbiamo speso le nostre migliori energie, vedere depotenziato, anziché esaltato
e messo a frutto, quel prezioso patrimonio dentro un partito compiutamente
laico e plurale che abbiamo concorso a costruire.