Presidente Romano Prodi, parliamo per prima cosa del momento italiano. L’Italia si interroga sul momento del suo ritorno e sul ruolo che avrà nella vita politica italiana. Lei era apparso indiscutibile e certo come leader di tutta l’opposizione quando sono sembrati emergere ostacoli e obiezioni che i cittadini non hanno percepito. Non hanno visto né capito quale fosse il problema. Ora ci giungono segnali rassicuranti: si parla di equivoci dissipati.
Ma che cosa è accaduto? C’è stata una schiarita o coloro che erano e pronti a votare Prodi devono stare col cuore in gola?
«Mi sembra doveroso far capire ai cittadini cosa sta succedendo. Il problema è semplice: noi siamo un’alleanza complessa, come è sempre stato il centrosinistra in Italia che fortunatamente non ha un padrone. Un’alleanza che deve presentarsi agli elettori con regole forti per stare insieme e con un programma comune. Io ho richiamato, prima che fosse troppo tardi, questi due problemi: prima di cominciare la campagna elettorale dobbiamo costruire la grande alleanza democratica, cioè la coalizione dell’intero centrosinistra, e poi fare delle regole per la Federazione dell’Ulivo che di questa alleanza vuole essere il motore e il timone. Bisogna affrontare la campagna con un’alleanza dotata di conformazione precisa. Con questi gesti è chiaro che si mettono sul tavolo inizialmente le divisioni e le diversità. Lo ritenevo necessario e onesto verso gli italiani. Abbiamo una situazione gravissima del Paese: economica, politica, sociale. Bisognerà fare un lavoro ininterrotto di 5 anni di buon governo. E per questo servono prima le garanzie di cosa intendiamo tutti insieme per buon governo e le garanzie che questo duri 5 anni. Questa è stata la logica che ha guidato la mia azione, forse non ha guidato qualche mia intemperanza, ma le intemperanze giovanili si devono sempre perdonare…».
Questa logica ha portato a riusltati positivi? È soddisfatto della direzione che il suo progetto sta prendendo?
«È nato un dibattito che può aver disorientato qualcuno ma che è estremamente fruttuoso. È inutile affrontare i problemi quando è troppo tardi: bisogna farlo sin dall’inizio dato che ci vuole tempo per risolverli. I passi in avanti negli ultimi tempi sono molto forti, l’ho constatato ad Assisi al convegno dei Cristiano Sociali e vedendo le decisioni della Margherita ieri (l’altroieri, ndr). Noto che questo discorso viene non solo capito, ma anche elaborato e tradotto in prospettive di azione comune. Alla riunione dell’11 ottobre con gli alleati potremo procedere con un’agenda che preveda unità di azione sulla Finanziaria, l’inizio di un dialogo serrato sulle candidature alle elezioni comunali e regionali, e l’avvio del lavoro sulle politiche. Obiettivi che non sarebbero stati possibili senza questo robusto dialogo con le posizioni in campo. Nel discorso di Antonio Di Pietro al congresso di IdV vedo la possibilità che si arrivi a decisioni comuni. Cominciano ad intrecciarsi argomentazioni e scopi che ci porteranno in pochi mesi a un programma ben definito e alla delimitazione della nostra coalizione. Ho sempre detto “adagio adagio”: è un motto forse semplice, ma se si ha a che fare con un processo democratico bisogna accettarne regole e lentezze. Noi fortunatamente siamo figli di un grande pluralismo. Il nostro percorso è del tutto diverso dal centrodestra. Dobbiamo essere coerenti con nostre radici e con il profondo humus che ci porta a essere dialettici. Potremo anche ricevere derisioni o ironie ma abbiamo in noi gli elementi correttivi, una creatività che non rende possibili strazi di governo come quelli visti negli ultimi mesi».
Lei ha parlato di una situazione gravissima del Paese. Vogliamo aprire una finestra per guardarla più attentamente?
«Dividiamo l’analisi in più campi: economico, sociale, politica interna ed estera. Il dato economico più forte è la perdita di competività nei mercati mondiali che si è accentuata soprattutto nei confronti dei nuovi mercati. Germania e Francia hanno bilanci sani verso Cina e India: noi no, e qualcosa non va. Anche gli indici del commercio estero e della produzione industriale vanno male. Come Pil siamo ultimi a pari merito in Europa. I conti pubblici sono altrettanto disastrosi. Nel gruppo dei 15 vecchi Paesi membri dell’Ue qualsiasi parametro prendiamo siamo sempre tra gli ultimi due o tre. Il risultato è che l’Italia non ha più nerbo e questo si riflette in un giudizio non più quantitativo bensì qualitativo: l’Italia è sempre meno considerata. Prima, a fatica, eravamo con Germania e Francia, ora siamo con Spagna e Polonia. Adagio adagio scendiamo in una categoria diversa: dai Paesi che hanno 57 milioni di abitanti a quelli che ne hanno 40. È impressionante».
E dal punto di vista sociale?
«Voglio sottolineare subito l’aumento statistico delle differenze di reddito e la caduta dei redditi medio-bassi. Sulla politica interna le leggi più importanti varate – dalla giustizia ai media – sono passi indietro molto seri. In questo momento c’è il terrore che l’Italia inquini la politica europea. Il discorso che viene fatto da fatto da interlocutori ad alto livello è: “Romano stiamo attenti, che uno che abbia molti soldi e mezzi di comunicazione e possa dunque inquinare il processo democratico lo troviamo anche fuori dall’Italia”. C’è preoccupazione per questo degrado legislativo».
Non serve riaprire vecchie ferite e tutti conosciamo la storia del ‘96: lei divenne presidente del Consiglio, poi questa esperienza si è interrotta. Ma quali sono gli errori che vanno evitati da qui in poi? Quale lezione è possibile trarre?
«Io voglio evitare di andare alle elezioni con l’armata sparsa. E siccome per fondere le nostre forze, i nostri obiettivi e programmi ci vuole tempo, ho cominciato subito. Ho messo i piedi nel piatto con chiarezza e sono contento perché si è aperto un dibattito. Basta con il passato: non creeremo entusiasmo parlando del ‘98 ma solo guardando al futuro. L’unica lezione è: discutere tutto prima per andare poi uniti alla battaglia elettorale. So che i messaggi unitari non danno frutti il giorno dopo, ma già l’Ulivo nacque per unire tutti riformisti nonostante radici diverse. Il nostro Paese è stato devastato per secoli dalla lotta tra guelfi e ghibellini. Nella storia ci siamo sempre presentati divisi. È un esame di coscienza che dovrebbe fare cento volte di più il centrodestra, ma non sembra averne alcuna intenzione».
E la sua richiesta di primarie serve in questo quadro per evitare di trovarsi poi in situazioni difficili?
«L’idea è nata da qui: fondiamoci insieme, cominciamo il dibattito, poi le primarie serviranno a portarlo in superficie e renderlo linguaggio di tutti. L’altra volta vincemmo con 80mila volontari, oggi ne servono il doppio. Le primarie sono un modo per far esprimere non solo i partiti ma tutti coloro che si identificano con la nostra coalizione. Già il dibattito è servito moltissimo a scaldare gli animi».
Come immagina l’organizzazione delle primarie?
«Non ci sono molte scelte possibili. La primaria vera è una sola: chi si identifica con la coalizione si iscrive in un registro pubblico e vota per il leader. Tecnicamente non vedo problemi sulle primarie: devono essere gestite dai partiti, per di più con le schede elettorali che tutti i cittadini italiani ormai possiedono è facile organizzare i seggi. È un modello organizzativo abbastanza semplice. Ma prima deve esserci una battaglia di opinioni che scaldi la gente».
Manca un anno e mezzo alle elezioni politiche. Qual è il momento migliore per le primarie? Subito dopo le regionali?
«Bisognerà farle abbastanza presto per dare un lungo respiro. Se ci fosse stata unità di intenti, se non fossi stato frainteso, non avrei avuto difficoltà ad andare a ottobre-novembre dell’anno prossimo. Otto-nove mesi come negli Usa: il tempo di farle e dimenticarle. Poi, purtroppo, c’è stato un dibattito volutamente strumentalizzato. Quando ho detto che serviva anticipo perchè le primarie richiedono sangue, si è detto che Prodi vuole il sangue. Ma è chiaro, le primarie sono necessariamente un confronto, e quindi dopo serve tempo per ricomporre le divisioni e fare campagna elettorale insieme».
Ad apparire particolare è che le primarie sono scontro e sangue, come dice lei. Ma al momento non è dato vedere candidature alternative.
«Almeno si smetterà di far rumore. Io pronto a qualsiasi cosa, ma un candidato o c’è o non c’è. Se manca, finiamola di borbottare. Ma questo non significa che io rinunci alle primarie che sono un preziosissimo strumento di partecipazione e di mobilitazione».
Non ritiene che l’entusiasmo si susciti con l’idea di un’altra Italia, di un’Italia diversa che Ulivo vuole costruire, piuttosto che discutendo di regole che alla gente interessano poco?
«Infatti io voglio chiudere subito questa fase. Perché la gente sa che le regole ci vogliono, ma non si appassionerà mai. Per questo ho voluto mettere immediatamente sul tavolo i problemi di procedura: che si dica subito sì o no».
Intanto diamo alla gente un messaggio. Vedremo il programma nel suo viaggio per l’Italia in cui ascolterà i cittadini. Ma può indicare i punti qualificanti della sua eventuale azione di governo?
«Io su questo capitolo chiedo aiuto a tutti. Siamo insieme su questo punto vitale per riprendere la corsa e la gioia di vivere. Il programma si fa insieme. Non ho ancora la ricetta pronta, ma ho già una serie di contributi da molte parti. Ricerca, formazione, università. investire sul futuro e sui giovani… Pensiamo poi a quello che succede in Cina: non penseremo che 3 miliardi di persone si sveglino senza far rumore? Dipenderà dal nostro atteggiamento se i mericati emergenti diventeranno un elemento di turbamento politico o di pluralismo. Quando parlo di mettere insieme le idee non sto giocando. Abbiamo degli orientamenti che vanno ancora elaborati».
Ha mai sentito messa in discussione la sua leadership?
«Non c’era un’alternativa chiara ma tanti rumori di fondo che impedivano di ascoltare una voce comune. Allora vengano a galla una volta per tutte. C’è bisogno di chiarezza di fronte al Paese».
Dal primo novembre si sentirà presidente della Federazione dell’Ulivo, leader della grande alleanza democratica o tutti e due?
«Onestamente, non vedo contraddizioni tra i due ruoli. È difficile avere una grande alleanza democratica senza una Federazione dell’Ulivo con regole strutturate, forti. Le coalizioni reggono benissimo se hanno punti di riferimento certi».
Che cosa intende esattamente quando parla di Federazione? Nella storia degli Stati sono tendenzialmente soggetti sovrani. Mentre l’Ue è in realtà una Confederazione con problemi, con dei poteri ma con stati sovrani autonomi. Ora, nella Federazione prodiana permangono le identità, c’è un nesso confederale con una delega di poteri? Si accetta la relativa autonomia dei partiti, con cessione di sovranità e con una forte investitura al candidato?
«Il paragone con l’Ue non è stato fatto per caso, ne abbiamo discusso a lungo. È quello più aderente, pur con tutti i limiti che conosciamo. Un’unione di popoli e nazioni dove si mette insieme una parte di sovranità necessaria per vivere nella globalizzazione. Un rapporto analogo lo dobbiamo realizzare in Italia tra la federazione dell’Ulivo e i partiti che la compongono».
Se ci fosse uno sfidante alle primarie e fosse Bertinotti, farebbe parte di un ticket Prodi-Bertinotti?
«Non so se Bertinotti parteciperà. Ma non c’è nessuna ipotesi di ticket. Le primarie si fanno per un posto solo. Anche negli Usa: il caso di Kerry con Edwards è un caso rarissimo. Ma il dialogo con Bertinotti è molto importante per noi: è cominciato in modo informale e destrutturato ma è molto chiaro e forte. Abbiamo capito che questo processo politico che stiamo avviando è una rivoluzione? Che stiamo facendo un gioco e una musica tutti diversi?».
Presidente Prodi, l’astensione sull’articolo 1 del disegno di riforma istituzionale è stata la prima manifestazione unitaria in Parlamento delle forze che daranno vita alla Federazione dell’Ulivo. Lei l’ha criticata. Non si sarebbe dovuto, invece, valorizzarla? E in ogni caso sulle grandi questioni non esiste uno spirito unitario da salvaguardare anche nella competizione bipolare, tanto più dopo i richiami di Ciampi? Per non dire del nuovo abito dialogante indossato da Berlusconi…
«Dialogante su che cosa? L’unità sulla vicenda delle due ragazze è ovvia e giusta. Esistono sempre dei temi sui quali un Paese deve trovarsi insieme. Sulla Costituzione però trovo una rottura totale e completa. La maggioranza va avanti come un bulldozer: è lì il problema e non c’è dialogo di nessun tipo. In questi giorni si riforma una Costituzione a colpi di machete. Segnalo un fatto paradossale. In Italia prima si esulta: il bipolarismo finalmente è arrivato… Passa qualche mese e si scopre che è diventato bello il “bipartisan”. Ripeto: ci sono temi sui quali ci si può e ci si deve trovare d’accordo, ma sulla maggioranza dei temi si hanno naturalmente posizioni diverse e contrapposte. Ci possiamo trovare d’acccordo, com’è avvenuto, sulla vicenda delle due volontarie. O magari anche sulla patente a punti… Ma resta il fatto che abbiamo una visione diversa del Paese, seriamente diversa».
Quale ritiene essere la diversità più profonda tra la visione del Paese della coalizione di centrosinistra rispetto a quella di centrodestra?
«I valori sono davvero diversi, e questa non è un’accentuazione retorica. Si può condividere qualche punto come avviene in Germania, o in altri Paesi. Iin Germania capitano occasioni in cui Democristiani e Socialisti convergono assieme, ma nella maggioranza dei casi non accade. Eppure quella tedesca è una democrazia compiuta. Una volta, quando ero al Governo, dissi a Helmuth Kohl che stavo per andare al congresso di un partito di opposizione e Kohl mi chiese spiegazioni: “Io faccio politica da quando ho 18 anni e non sono mai entrato in un sala del partito socialista. Abbiamo adottato molte volte decisioni in comune ma abbiamo una visione diversa del Paese”. Vi immaginate Bush che va alla Convenzione democratica? Eppure quella staunitense è certamente una democrazia: è una democrazia di alternanza. Attenzione, che la democrazia funziona quando ci sono le alternative. Quanto al caso delle ragazze prese in ostaggio, guardate il titolo di Libero: “Ci hanno stufato”. Ma era questa l’unità che intendono? Era un espediente così strumentale da dirci “Ci hanno stufato!” solo quattro giorni dopo? Nel momento in cui queste cominciano a dire: “Noi eravamo là per fare del bene ai bambini” loro scrivono: “Ci hanno stufato!”. E una riforma costituzionale richiederebbe una coesione più forte. In pratica, invece, a essere riformato a colpi di machete non è un solo articolo della Costituzione, ma quarantatrè».
Lei vede per l’Italia un’insidia centrista legata alla crisi del berlusconismo e quindi a un’ipotesi di post-Berlusconi? E’ un’ipotesi che tocca anche il cuore dei rapporti nella federazione…
«Ma io dovrei chiedere: quand’è che scatta il post-Berlusconi? Nell’attuale quadro di riferimento non vedo nessuna possibilità di un’ipotesi centrista, per il futuro si vedrà. Ma io voglio irrobustire la grande coalizione proprio perché non si torni indietro grazie alla messa in campo di un disegno che unisce tutti i riformisti. Se ritorniamo al centro che si muove una volta a destra e l’altra a sinistra, se ritorniamo al pasticcio, se torniamo ai Governi che durano un mese, torneremo a un’Italia senza disegno né prospettiva».
Il referendum sulla fecondazione assistita. Ci sono delle forze, anche di matrice cattolica, che ritengono che un referendum che abolisca una parte o tutta questa legge sia l’unico strumento adatto per arrivare ad una norma decente. Alcuni di noi siamo stati colpiti dalla sua presa di posizione contraria al referendum. Anzi, per dirla tutta, c’è stata anche un’interpretazione anche maliziosa, come se si trattasse di una sorta di contrappeso nei confronti di un’area della Margherita, a cui invece Prodi stava dando, nel frattempo, invece, una risposta negativa per altri temi. Ci spiega meglio il senso della sua posizione?
«Prima sgombriamo il campo da qualsiasi equivoco. Potete capire anche voi: ognuno ha la sua storia personale, la mia non l’ho mai nascosta, e so benissimo quanto in seno al governo di centrosinistra questi problemi siano stati dibattuti a fondo. Ricordo che in quell’occasione si trasse una conclusione largamente condivisa: “Prima di prendere una posizione, facciamo lavorare le coscienze, perché tutte le leggi che riguardano l’etica, se vengono fatte entro i confini stretti di partito, risultano leggi sbagliate”. È proprio per questo motivo che ho parlato di “elemento dilaniante” a proposito del referendum. Se volete mi correggo: “Il referendum può diventare un fatto dilaniante”. Ma rimango ancora convinto che ci sono molti elementi perché esso diventi un’occasione di grande rottura della società italiana. Perciò ho chiesto di verificare la possibilità che persone serie e di buona volontà lavorino per introdurre cambiamenti sostanziali di questa legge, per migliorarla negli aspetti che sono ritenuti non soddisfacenti. Questa è la mia posizione, molto semplice. Capisco che questo lavoro è molto complesso, molto difficile, però mi sembrerebbe importante ed utile per tutti se si riuscisse a fare un passo in avanti».
Secondo lei in Parlamento esistono davvero le condizioni per trovare un accordo sulla procreazione assistita? La legge 40 è stata discussa a lungo, per mesi e mesi, e questa intesa non è stata raggiunta.
«Un accordo su questa materia è sicuramente difficile. È vero anche, però, che la discussione è stata lunga, ma è stata anche, in molti casi, fronte a fronte. E io credo che sia importante, invece, provare, con persone di indiscussa serietà e che rappresentano posizioni diverse, a vedere se ci sia un modo di fare una legge che ricomponga una posizione accettabile, perché si giunga a un compromesso serio».
Voglio tornare sulla questione della federazione. Semplificando, ci sono, grosso modo, due approcci: quello che mette in primo piano la diversità delle identità da tutelare e quella di chi, invece, vede la federazione come una tappa, nel percorso più o meno ravvicinato della formazione di un nuovo soggetto politico, il cosiddetto “Partito dei Riformisti”. A quale approccio si sente più vicino?
«Ritengo che il Partito unico non sia ancora maturo, non sia ancora alla nostra portata, non sia un obiettivo concreto per l’oggi. La federazione, quindi, mi sembra un serio e realistico modo di procedere».
Ci vuol parlare di un passaggio importante della sua esperienza di presidente della Commissione europea? Che cosa è accaduto quando s’è verificata quella spaccatura dell’Europa, anche e soprattutto provocata dal Governo italiano, quando non si è voluto accettare di dare una legalità internazionale all’intervento in Iraq?
«La spaccatura è stata profondissima anche nel linguaggio, negli incontri, s’è verificata una grande tensione anche psicologica. Onestamente non direi che la spaccatura sia stata generata dagli italiani: è stata opera di Blair, e poi la Spagna e l’Italia si sono accodate anch’esse alla politica americana. Ma s’è trattato di una scelta forte britannica, coerente del resto con una tradizione almeno decennale. Io stesso l’ho sofferta moltissimo nei rapporti personali con Blair, che sono stati durissimi».
Una domanda velocissima: per la prossima sfida con la destra l’Ulivo ha già scelto la sua leadership, ma domani – e sottolineo: domani – la federazione dell’Ulivo potrebbe esprimere un candidato alla guida del Paese che provenga dalla storia del PCI?
«La domanda quasi mi offende: è ovvio. In questo nostro disegno c’è anche il proposito di dare concretezza a un lungo cammino della storia italiana».
Presidente, in una precedente dichiarazione ha detto che si propone di rimanere alla guida del governo solo per cinque anni. Come mai?
«Perché io credo che ci sono dei grandi passaggi storici che hanno bisogno di un messaggio preciso, e dunque un leader può, deve parteciparvi per compiere una transizione, per aiutare un passaggio. Operare per il grande cambiamento e nello stesso tempo rivolgersi alla coalizione con l’impegno: “Non vi sarò mai di impiccio”. Ciò non vuole dire assolutamente una scelta in favore o contro i DS o a favore o contro la Margherita».
Non corre il rischio così di operare in una situazione di sovranità limitata?
«Io so soltanto che nell’ultimo anno di vita della Commissione europea, sapendo benissimo che non sarei stato rieletto, abbiamo fatto più cose che in tutta la storia della Commissione. Anzi, questo mi ha dato una libertà di azione straordinaria, non ho dovuto far patti con nessuno! Cinque anni, però, ci vogliono, e ci vogliono tutti. Perché non possiamo illuderci di aver risultati dopo uno o due anni in una situazione come quella attuale. Sono i fondamentali, infatti, che sono diventati deboli, e cinque anni è un periodo minimo per cambiarli».
Vorrei ritornare proprio alla questione dell’Iraq, nella sua doppia veste di Presidente della Commissione e di leader dell’opposizione: come se ne esce e che cosa dovrebbe fare l’Italia in questo momento? Cosa chiede l’opposizione? Anche perché bisognerà evitare di andare via dopo gli americani! Perché stiamo correndo questo rischio…
«Prima di tutto un’osservazione: noi del centrosinistra siamo riusciti a farci infilzare sulle divisioni sulla guerra. Proprio noi che sulla guerra siamo stati sull’onda del comune sentire del popolo italiano, esprimendo anche l’opposizione alla guerra di metà dell’elettorato del Polo, se è vero che oltre il 70% degli italiani sono contro la guerra. Eppure siamo riusciti a presentarci divisi. È una cosa che non riuscirò mai a mandare giù. Siamo stati d’accordo nell’affermare che le nostre truppe non erano più là per uno scopo di pace e che quindi il nostro obiettivo era il ritiro di queste truppe. Sui tempi di questo ritiro, io ritengo che si tratti di una questione secondaria, un tema che viene cioè dopotutti gli altri. È chiaro che dobbiamo porci l’interrogativo sul che fare qui ed ora. E di fronte alla possibilità di elezioni in Iraq o di fronte ad altri fatti nuovi, io credo che il ritiro immediato non sia necessariamente la scelta più utile. Tuttavia stiamo attenti a non ritirare le nostre truppe dopo quelle americane. Infatti gli americani hanno cominciato a cambiare la loro strategia in Iraq. Nessuno se n’è accorto ancora, ma da alcune città sono usciti, hanno cominciato in modo non palese ad avere una strategia di presidio e non di occupazione globale del Paese: questo è un fatto da tenere presente. In ogni caso, lo voglio ricordare un’altra volta: quella dei tempi del ritiro non è la questione principale. Il giudizio netto e drastico sulla guerra e la richiesta di una soluzione che preveda il ritiro: questi sono i punti essenziali e su questi siamo tutti d’accordo».
Vorrei concludere con questa domanda: tu hai trovato un’Europa e adesso ne lasci un’altra. In sintesi qual è l’Europa che hai trovato e quella che lasci al tuo successore?
«Quattro punti: il primo è l’euro. La moneta unica era stata deciso ma tutta l’impalcatura e la messa in atto l’abbiamo fatta concretamente noi ed è una cosa straordinaria per la politica europea. Ripeto sempre la frase che mi rivolse il Presidente cinese: “Noi metteremo l’euro nella nostra riserva perché amiamo il mondo multilaterale e non il mondo monopolare”. La moneta, quindi, non è solo un fatto economico ma è un fatto politico. Secondo punto, la cosa della quale più vado orgoglioso: l’allargamento e cioè l’unificazione dell’Europa. Nel 1999, quando pronunciai il discorso in cui aprivo le porte a sei nuovi Paesi che poi sarebbero diventati dieci, era impopolarissimo e non ci credeva nessuno. L’abbiamo fatto rassicurando sia la nostra opinione pubblica, sia l’opinione pubblica dei Paesi che sono arrivati con un lavoro faticosissimo: dividere il negoziato in 31 capitoli, lavorare su ambiente, salute, politica estera, polizia, lavorare con i Parlamenti nazionali per adeguare le loro leggi a quelle europee, lavorare con i governi per applicarle. Un lavoro impressionante. Mai successo nella storia e con questo nostro lavoro noi abbiamo esportato democrazia. C’è stata, poi, la decisione definitiva sull’apertura dell’Unione Europea: ai Balcani. Entreranno quando saranno maturi e pronti, ma la porta è aperta, e quindi la pace nei Balcani è garantita. La Croazia ha fatto passi in avanti molto forti, ieri ho portato i questionari in Macedonia con un rito che, se volete, può sembrare anche burocratico, ma che li ha messi subito al lavoro, li obbliga a rivedere tutta la loro legislazione. La Serbia e il Montenegro seguiranno. C’è, poi, l’Albania, e c’è la Bosnia… La grande obiezione che mi è stata mossa sulla politica dell’ultimo anno è stata: “Avete fatto l’allargamento per spostare di poche centinaia di chilometri la cortina di ferro?”. Obiezione avanzata da Ucraina, Moldova, da alcuni russi, da alcuni bielorussi. L’obiezione venuta dal sud, invece, è stata: “Avete prestato tutta la vostra attenzione all’Est e noi poveri del Sud del Mediterraneo siamo rimasti fuori”. Ma anche se con tali limiti in questo modo è nata quella che, secondo me, sarà la politica guida per i prossimi 40 anni, e cioè la cosiddetta politica del vicinato o dell’anello degli amici: offrire a tutti questi Paesi – inclusi quelli non strettamente confinanti e cioè i caucasici, la Georgia, Azerbaigian e Armenia – la possibilità di condividere con l’Unione tutto, tranne le istituzioni, Paese per Paese, ognuno secondo i suoi meriti. La porta è aperta perché ci sia un’Unione commerciale, regole degli investimenti, regole sanitarie, regole di polizia, regole di giustizia, tutto tranne le istituzioni. È così che si garantisce una vera sicurezza. Solo l’Europa si è mossa sempre nella logica del multilateralismo. È venuta adesso anche la soddisfazione per l’adesione della Russia al protocollo di Kyoto. Conosco benissimo i limiti di Kyoto, ma sappiamo anche che costruiamo così un metodo di Governo delle cose che sono di interesse di tutto il mondo e non solo di qualche Paese. Terzo: la nuova Costituzione che nell’ultimo giorno di vita della Commissione da me presieduta verrà approvata. C’è, infine, la riforma della Commissione che apparentemente non interessa nessuno, ma ricordatevi che se non si fanno entrare in vigore delle nuove regole burocratiche, non si forma una vera entità politica. Il valore di questo lavoro verrà riconosciuto forse fra 50 anni. Però intanto adesso abbiamo le regole di comportamento degli impiegati, dei cantieri funzionali, le regole contro la frode, la Corte dei Conti. Cose noiosissime, ma importantissime. E l’Europa ora è più forte, più grande».