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1 Aprile 2004

Prodi, la sfida contadina

Autore: Carlo Petrini
Fonte: La Stampa

L’Europa cambia, rinnova la sua dirigenza politica, si allarga, il suo processo d’unificazione continua attraverso problematiche complesse e una faticosa armonizzazione. L’agricoltura rimane uno dei settori che più assorbono le energie di legislatori e politici: siamo di fronte a zone rurali dove il produttivismo esasperato ha fatto tabula rasa, cancellando prodotti, valori, abilità umane. Per contro abbiamo ancora territori che hanno conservato tradizioni e stili produttivi sostenibili; inoltre stiamo per accogliere dieci nuove nazioni che si apprestano a entrare nell’Unione: Stati al cui interno il numero di contadini rappresenta ancora una percentuale rilevante della popolazione. Diventiamo lentamente una cosa sola, con innanzi a noi un grande dualismo, che contrappone da un lato la produzione agro-industriale massificata delle zone più industrializzate e urbanizzate e, dall’altro, antiche pratiche che resistono ancora.

Presidente Prodi, come immagina il meeting Terra Madre, cioè l’arrivo a Torino, da tutto il mondo, di cinquemila rappresentanti comunità produttive del cibo in rappresentanza delle loro comunità del cibo?

« Molti di questi agricoltori vengono da società con problemi interni molto forti e gerarchie profondamente diverse. Dovrebbero essere in grado di portare delle soluzioni originali, anche perché altrimenti il meeting si ricondurrebbe a una generica e sterile lamentela; che può essere anche la più giustificata e la più forte del mondo, ma da sola non servirebbe a nulla. Sarà importante invece che diano un contributo su come hanno operato nel nome delle loro tradizioni, su come hanno saputo gestire la biodiversità che hanno attorno, sulle piccole innovazioni, su come si posizionano rispetto al mercato, oppure come hanno organizzato il lavoro nelle famiglie e nella comunità. Ma ripeto: sarà fondamentale evitare che diventi un’assise di rivendicazioni. Tenuto conto che partiamo da uno spaventoso numero di persone che si trovano di fronte al problema della sopravvivenza o, peggio, della fame vera e propria, si rischia che un soggetto come Slow Food, il quale parte da una struttura nata e imperniata sulla ricerca della qualità gastronomica, alla fine si trovi in difficoltà nel gestire la cosa».

Questo è senz’altro un passaggio non scontato, ma che in qualche modo abbiamo già compiuto. Se facciamo i nostri Presìdi in Brasile, non cerchiamo di difendere l’haute cuisine brasiliana, ma i prodotti tradizionali delle umili comunità contadine: prodotti che sono in via d’estinzione perché non ci sono possibilità di sviluppo di fronte all’invadenza del commercio globale. Il problema è che dobbiamo uscire da un’ottica del gusto euro-centrica: quello che piace a noi non è detto che debba piacere ai popoli che vivono in una giungla. Ogni cultura ha una sua identità diversa, anche gastronomica: forse più povera, forse assolutamente incomprensibile per noi, ma senz’altro legata alla biodiversità del territorio in cui s’è sviluppata; senz’altro appagante perché conforme al gusto di quei popoli, ai loro costumi, ai loro rituali. Se a questa specificità si sostituisce il prodotto occidentale industriale si crea un disastro, nasce una dipendenza che senza risorse economiche esterne al territorio, come il denaro, porta diritta alla fame. Anche nelle ristrettezze più dure la gastronomia assume una rilevanza centrale.

« Il vostro approccio è senz’altro innovativo e ha funzionato bene nell’occidente ricco: resta da vedere se avrà la stessa fortuna in ambienti dove non c’è lo stesso substrato culturale che ha trovato da noi. Forse, prima di tutto, è proprio sull’aspetto culturale che bisogna lavorare: Terra Madre può tornare utile in questo senso. In ogni caso è anche vero che non bisogna soltanto pensare ai paesi più drammaticamente in difficoltà. Ad esempio io consiglio di creare una sezione apposita in cui ci sia un confronto dedicato ai dieci paesi che si apprestano a entrare nell’Unione Europea. Siamo di fronte a grandi agricolture, che mantengono una struttura per lo più familiare, ancora profondamente differente rispetto a quella degli altri quindici Stati dell’Unione. Sono agricolture tradizionali che dovranno affrontare un bello scossone di fronte all’entrata in Europa. Sarà necessario fornire loro gli strumenti su come reagire, su come operare senza ansie e paure. Noi abbiamo avuto più tempo per assimilare il mercato unico; loro purtroppo dovranno adeguarsi in pochi anni. Allo stato delle cose c’è il rischio di dilapidare un patrimonio culturale e produttivo immenso. La vostra esperienza associativa, il vostro modo di operare, potrà servire come esempio: far conoscere i prodotti tradizionali all’interno e all’esterno del paese; ridare dignità ai produttori perché non abbandonino l’attività; fare in modo che il loro lavoro sia in grado di generare una giusta remunerazione. Oggi queste persone non hanno ancora la possibilità di continuare le loro produzioni soltanto in virtù del loro valore culturale»

La Polonia, per esempio, entra nell’UE con ancora il 37% di persone impiegate in agricoltura. Più o meno la nostra stessa situazione nel secondo dopoguerra: sarebbe meglio evitare che rinneghino questa capacità produttiva con tutti i suoi valori (che possono insegnare molto anche a noi) per afferrare a ogni costo una tanto auspicata, e comunque legittima, modernizzazione. Io comincio a percepire le prime avvisaglie di un certo timore da parte di questi Paesi. Da un lato sono speranzosi che i flussi di contributi che riceveranno possano incidere profondamente sulle loro economie; dall’altro sono molto guardinghi nei confronti dell’Unione, temendo di dover mutare pelle in maniera repentina e traumatica. Hanno paura di perdere potere e dignità. Il sogno, che condividiamo entrambi e che immagina un’Europa generosa, meno «degli Stati» e più unita, con le singole realtà aperte allo scambio, orgogliose ma non autoreferenziali, troverà ulteriori ostacoli di fronte a questi nuovi soggetti?

« Il problema si pone non per una questione di supposto dominio culturale, ma per un semplice fatto cronologico. La politica agricola europea, e non soltanto, risente delle regole impostate dai primi Paesi che l’hanno organizzata. È chiaro che i nuovi Stati che entrano nell’Unione hanno il forte timore di sentirsi in qualche modo colonizzati. È chiaro dunque che sarà fondamentale riuscire a dare una prospettiva che permetta loro di mantenere le proprie tradizioni, i loro prodotti, la loro identità: in una parola la loro diversità. L’ambito è delicato: esistono regole commerciali che non sempre potranno esser loro favorevoli. All’armonizzazione può seguire un’omologazione dei consumi, proprio come avviene in tutte le colonizzazioni culturali. Gli imprenditori dell’ovest si rendono bene conto dei vantaggi che possono avere con questi nuovi mercati: non è un caso che molti di loro stiano già da tempo trasferendo le loro attività ad est. I sistemi imprenditoriali dei nuovi dieci dovranno dunque fare attenzione a non essere “conquistati” da quelli occidentali, più maturi e con maggior esperienza. Bisognerà fare in modo che la spinta che proponete voi, la difesa con i propri mezzi di un proprio modo d’essere, si controbilanci a questa tendenza omologante: con strumenti culturali propri da un parte e l’aiuto istituzionale alla piccola agricoltura di territorio dall’altra».

In ambito di politica agricola comunitaria – fatte le dovute premesse sull’istituzione delle denominazioni di origine, che mi paiono un’ottima forma di tutela e di valorizzazione – siamo entrambi consapevoli che la politica dei sussidi va profondamente ripensata. La prima volta che ho sentito parlare di riforma in merito, di un ridimensionamento, l’ho sentito da lei. Ma l’impressione che abbiamo dalla periferia è che in sede decisionale europea queste volontà sono spesso tenute sotto pressione dalle forti lobbies dell’agro-industria.

« Anche questo è un grande confronto culturale: remunerare la produzione aggiuntiva fu una priorità indispensabile in tempi in cui in Europa non c’era abbastanza cibo per tutti. Una volta raggiunto l’obiettivo prioritario, gli enormi interessi creatisi attorno alla politica dell’aiuto alla quantità hanno continuato in qualche modo a governarla. Oggi questo è uno dei capitoli più faticosi e difficili dell’agenda europea, ma ce ne siamo resi conto soltanto una volta giunti alla sufficienza alimentare. Ecco perché di fronte all’ingresso dei nuovi paesi dell’est si è posta l’opportunità di un intervento di correzione. Guardandosi alle spalle però, bisogna riconoscere che senza le regole europee molti prodotti sarebbero già spariti e l’azione di soggetti come il vostro movimento sarebbe comunque arrivata troppo tardi. Per quanto riguarda la contrapposizione tra gli interessi delle lobbies della produzione in serie e quelli della piccola produzione artigianale anch’io l’avverto, e l’ovvia sensazione è che i primi riescano a spuntarla in questa battaglia. Penso però che, siccome in Europa da tempo il reddito è più che sufficiente rispetto ai bisogni della sopravvivenza, anche la piccola produzione tradizionale, al di fuori dei circuiti della grande distribuzione e della grande industria, abbia le sue carte da giocarsi. Tra l’intervento di soggetti privati e associazioni, il risveglio dell’opinione pubblica, la sua parte d’attenzione non gliela nega più nessuno».

Detto fuori dai denti, ci vede come dei Don Chisciotte contro i mulini a vento?

« Dipende. Per assurdo voi in questo momento siete i vincitori: la gente fa più diete, mangia meno e mangia meglio. C’è stato un spostamento dalla quantità alla qualità, anche troppo forse, in alcuni casi addirittura portato all’esasperazione. Basta accendere la televisione per rendersene conto. Ciò è però già sufficiente a dimostrare che non siete dei Don Chisciotte: l’operazione che avete svolto in Italia è riuscita benissimo. Ora la sfida è portare questa conquista anche in altri Paesi, come quelli dell’Est, costruendo gli stessi strumenti di difesa e le condizioni per ottenere gli stessi fatturati. Dare alle Nazioni emergenti un esempio di come si è lavorato bene in altri luoghi è molto importante. Si può dare loro questo concetto per definizione: cioè che il loro prodotto tradizionale merita di essere salvato e ha tutte le caratteristiche per avere successo. In secondo luogo gli si fa comprendere che il prodotto speciale, simbolo di una particolare identità locale, non regge il mercato se non è accompagnato da un valore aggiunto culturale: deve essere percepito e trattato come una cosa diversa dai prodotti di massa, altrimenti ne viene inghiottito. Se insieme a questo passaggio le istituzioni europee sapranno accompagnare la crescita e l’evoluzione del mondo agricolo, si vincerà una parte della sfida. Negli altri paesi, come in Africa, getti un seme; getti un seme e speri che cresca qualcosa».

Africa: prima parlavamo di colonizzazione e, fuori dall’Europa, ci sono le comunità che più pagano forme di colonialismo e di imperialismo vero e proprio. In questi luoghi, dove la gastronomia è forse meno evoluta ma non meno povera, il colonizzatore ha imposto i suoi costumi alimentari ritenendo quelli degli indigeni primitivi, impraticabili e soprattutto non esportabili. In altri paesi invece, penso ad esempio all’India, il colonizzatore non si è fatto nessun problema a «rubare» idee gastronomiche: uno dei condimenti più tipici dell’Inghilterra, il curry, sappiamo benissimo che origini ha. Lo stesso processo è avvenuto a livello agricolo, creando una frattura incredibile tra materia prima e savoir faire. L’invadenza del colonizzatore ha sostituito le produzioni tradizionali con quelle ad uso e consumo della madre Patria. Basti citare il cacao e il caffè su tutte. Pensi che il 75% dei coltivatori di cacao del mondo non ha mai potuto assaggiare il cioccolato. È un problema di sovranità alimentare: abbiamo da un lato lo scollamento tra lavoro nei campi e capacità d’impiego della materia prima; dall’altro il depauperamento del sapere gastronomico e delle tradizioni alimentari. In questo modo le possibilità di riscatto e di sviluppo sono ridotte al lumicino. La cucina, secondo me, è una forma di diplomazia della pace molto importante: una rivendicazione della propria sovranità alimentare da parte di queste società significa innanzi tutto riuscire a fare economia senza essere dipendenti dagli altri.

« I paesi alle prese con questi problemi che ci ritroviamo più vicini sono quelli del sud del Mediterraneo: quel mare nostrum che conserva ancora una biodiversità naturale, una varietà produttiva e una ricchezza culturale straordinarie. Mi premerebbe molto che in Terra Madre fosse affrontato l’insieme delle problematiche che stanno coinvolgendo questo bacino, in particolare proprio i paesi della sponda meridionale. Perché siamo di fronte a un mondo sottoposto a sfide di enorme complessità: basti pensare alla forte emigrazione che lo sta coinvolgendo. È un mondo che ci ritroviamo proprio di fronte all’uscio di casa, alle prese con gravissimi problemi di natura sociale ed economica. Molte di queste comunità non sono autosufficienti, né al loro interno, né sul mercato. Il sogno dell’Europa generosa e aperta passa anche per la consapevolezza e l’intervento su queste problematiche, che sono da un certo punto di vista lontane, ma in realtà così vicine».