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31 Gennaio 2007

Perché affidare le reti ai privati

Autore: Francesco Giavazzi
Fonte: Corriere della Sera
Il Fondo per le infrastrutture creato due settimane fa dal governo e da
alcune grandi banche solleva molte perplessità; e non solo per le modalità
con cui esso è stato attuato, in sordina, senza alcuna discussione pubblica.

Il vero problema è che si tratta di un progetto vecchio, dal quale traspare
un’evidente difficoltà a comprendere come funziona un’economia moderna. Una
visione in cui non c’è spazio per autorità indipendenti e si pensa che
l’unico modo per regolare le grandi reti (luce, gas, telefoni) sia
nazionalizzarle, come fece il primo governo di centrosinistra creando l’Enel
nel 1963.
Le reti non sono strutture amorfe da affidare ad amministratori scelti dalla
politica. Sono aziende che richiedono capacità imprenditoriale. Chi pensa
che non si possano affidare le reti ad azionisti privati, dovrebbe visitare
i siti di National Grid, la più grande società privata al mondo che possiede
reti elettriche e del gas, e di Ofgem, il regolatore britannico. Sorprende
che i presidenti dell’Antitrust e della Consob sembrino non conoscere queste
realtà e sostengano che la separazione di Snam Rete Gas dall’Eni non sia
urgente. Se non conoscessi Antonio Catricalà mi sorgerebbe il dubbio che si
tratti di un tipico caso di cattura del regolatore da parte dell’impresa
regolata. Quanto al presidente della Consob, Lamberto Cardia, la concorrenza
del mercato dell’energia non mi sembra materia di sua competenza.
L’idea che l’economia necessiti di istituzioni in cui Stato e grandi banche
collaborano sotto la regia del governo era innovativa negli anni Trenta e
nell’immediato dopoguerra, quando eravamo un Paese povero e arretrato. Fu
questo il contributo lungimirante di persone illustri e non ripetibili, come
Alberto Beneduce, Donato Menichella, Raffaele Mattioli, Enrico Cuccia.
Da allora è trascorso più di mezzo secolo. In un bellissimo saggio Philippe
Aghion, Daron Acemoglu e Fabrizio Zilibotti («Crescita economica e distanza
dalla frontiera» pubblicato nella rivista della European Economic
Association), spiegano che le istituzioni di cui un’economia ha bisogno
dipendono dal suo stadio di sviluppo tecnologico: quelle che vanno bene per
un Paese lontano dalla frontiera tecnologica mal si adattano a un’economia
che deve competere sulla frontiera.
Negli anni Cinquanta e Sessanta l’Italia � come più tardi Giappone e Corea
del Sud � è cresciuta adottando tecnologie note e il più delle volte
sviluppate negli Stati Uniti: acciaio, automobili, elettrodomestici. In
questa fase, in cui erano necessari grandi investimenti con rendimenti
differiti nel tempo, serviva stabilità, quindi relazioni a lungo termine tra
industriali e banchieri, assetti proprietari duraturi, basso avvicendamento
dei manager, tutte caratteristiche di un sistema finanziario imperniato su
grandi banche. Una forte presenza dello Stato nell’economia non era un
ostacolo: la nostra crescita degli anni Sessanta deve molto all’Iri che
controllava buona parte dell’industria e molte delle maggiori banche, e che
ha prodotto una generazione di manager eccellenti.
Ma quando un Paese raggiunge la frontiera della tecnologia, l’innovazione
diventa il fattore critico per la crescita. E poiché sono soprattutto le
imprese nuove che innovano è necessaria molta «distruzione creativa», cioè
un ambiente in cui le vecchie aziende chiudono i battenti e nuove le
sostituiscono, in cui la proprietà è contendibile, anche quella delle
banche.
La stabilità degli assetti proprietari e le relazioni di lunga durata tra
industriali e banchieri egemoni diventano un ostacolo. Come pure la
«politica industriale» e una presenza attiva dello Stato nell’economia,
perché i manager pubblici possono essere bravissimi a costruire altoforni,
ma non inventeranno mai Skype o una compagnia low cost.
Cambiare le istituzioni è difficile. E se un Paese non ci riesce la crescita
si interrompe: questo è il vero motivo per cui da anni il Giappone non
cresce più. In Italia il fallimento dell’Iri e gli effetti di Tangentopoli
hanno favorito il cambiamento.
Davvero vogliamo tornare indietro? Tre anni fa Giulio Tremonti pensava che
l’unico modo per salvare la Fiat fosse farvi intervenire la Cassa depositi e
prestiti: fortunatamente non lo ha fatto. Da allora sono uscite anche la
banche e l’azienda non è mai stata tanto solida.