Da una disfatta evidente alle regionali o municipali ci son almeno quattro modi di uscire, per qualsiasi coalizione che governi e disponga ancora d’un certo tempo prima del rinnovo delle Camere. Le forze che la compongono possono cambiare politica, concentrando tutte le forze su progetti arditi cui viene affidato l’incarico di ricatturare i voti temporaneamente fuggiti. Possono mutare il governo, proponendo al Paese ministri che si identifichino con la svolta programmatica adombrata nella prima soluzione. Possono interpretare la disfatta locale come catastrofe nazionale, prender atto che la società non coincide più con la rappresentanza, e cercare l’accordo del Capo dello Stato puntando a elezioni politiche anticipate. Infine, possono rispondere patologicamente al declino di fiducia nell’elettore, e cercar rifugio nella sindrome del supermercato. Una sindrome che ciascuno di noi conosce alla perfezione, per averla vista all’opera nei grandi magazzini che più volte frequentiamo.
La sindrome del supermercato consiste in questo: ogni settimana circa (gli intervalli variano, imposti come sono dai capricci e dalle finte immediatezze creative di chi comanda nell’emporio) il luogo delle merci cambia radicalmente, anche se le merci son sempre lo stesse. Il burro d’un tratto non è più lì dove eravamo abituati a trovarlo, il latte improvvisamente è accatastato a sinistra mentre ancor ieri andavamo in fondo a destra per acciuffarlo. E via spostando e rispostando, con gran piacere del capo-bottega ma non certo del cliente. Questi infatti non troverà né frutta più fresca, né burro migliore. Perderà solo la trebisonda, accumulando una stizza sottocutanea che gli resterà addosso anche dopo la spesa. A questa sindrome vien dato un nome solenne e vuoto, che da giorni circola insistente: discontinuità.
È questa quarta soluzione che sembrano aver adottato i centristi a destra, guidati da Marco Follini dell’Udc e da De Michelis del nuovo partito socialista. Si cambia posto, non si sta più dentro il governo ma fuori, e al tempo stesso però si promettono consensi immutati a un eventuale secondo governo Berlusconi. Poco importa sapere se i vocaboli hanno un qualche rapporto con le intenzioni vere, se il presente prefigura il futuro, se la lealtà che a parole si garantisce nasconde un inganno che nel segreto del cuore si va meditando.
Il vocabolario dell’ultima crisi di governo in Italia rimanda alla sindrome del supermercato, e questo è comunque il messaggio che dai palazzi partitici viene indirizzato al Paese che ha appena votato: nei reparti del supermercato politico, tutte le ubicazioni vengon alterate perché tutto resti uguale.
Così c’è chi va da una parte e chi resta nell’altra, c’è chi si defila e chi s’infila, senza che tuttavia la merce muti. Follini ha addirittura detto a Berlusconi, il 14 aprile prima di dimettersi: «Guarda che se apri la crisi di governo sono disposto a sottoscrivere qualsiasi documento». Qualsiasi documento, qualsiasi politica, qualsiasi riforma, anche la più sciagurata, purché le ubicazioni di merci e uomini traslochino. Che c’è di nuovo rispetto a quello che Follini e De Michelis hanno fatto negli scorsi anni? Hanno accettato tutto – legittimando conflitto d’interessi e legge Cirami (una legge che porta il nome d’un senatore Udc), riscrittura della Costituzione e devoluzione, degrado morale e legge Rai, crisi dell’europeismo italiano e deficit pubblico – e anche adesso son pronti a «sottoscrivere qualsiasi documento» pur di defilarsi e ottenere quel che per ogni politico è il più possente sogno segreto: esercitare il massimo di potere – in particolare quello di ricatto – senza averne però le responsabilità. È l’anticamera di ogni usurpazione, da che gli uomini regnano su altri uomini.
Dicono che Marco Follini sia uomo di coraggio e coerenza: cosa difficile da condividere, per una mente pratica oltre che logica. Coraggio dovrebbe esser cambiar politica e qualità degli articoli in vendita, non semplicemente variar posto e scaffali. Coraggio è ammettere il proprio fallimento oltre a quello del partito guida nella coalizione (Udc e nuovo partito socialista son parte dell’alleanza che le urne hanno censurato, e né Udc né nuovi socialisti hanno preso un solo voto dai delusi di Forza Italia).
Coraggio sarebbe riconoscere che il centro-destra è vissuto di interni ricatti anziché di una leadership forte, e consolidare almeno in fine legislatura tale leadership. Coraggio sarebbe governare come se non vi fosse una formidabile pressione della Conferenza episcopale, interessata a saltare il referendum sulla procreazione pur di resuscitare un fronte cattolico unito. Coraggio sarebbe infine dire su cosa si è ancora d’accordo, e su cosa precisamente si rompe. Tutto questo è assente nel gran rifiuto di Follini: che rompe non rompendo, che si dice pronto a firmare ennesimi assegni in bianco in cambio di non si sa bene cosa, che vuole un Berlusconi bis ma immobilizzato da inalterate alleanze elettorali, che sibillino respinge così il documento proposto dagli alleati: «Quale documento? Mi pare non sia né il problema né la soluzione». Al gran rifiuto vien dato il nome di discontinuità, abbiamo visto. Ma è una discontinuità puramente gestuale, è forma senza più sostanza. In tempi non antichi si chiamava: doroteismo.
Ma soprattutto: è una discontinuità senza rapporto con la società italiana, e col modo in cui essa si è espressa non solo in aprile, ma ripetutamente da quando esiste il maggioritario. Le ultime regionali hanno visto trionfare la volontà del popolo e dunque la democrazia, prima ancora che il centro-sinistra. Dopo anni di governo mal gestito, non sono i cosiddetti corpi intermedi ad aver funzionato (magistratura, televisione, stampa, intellettuali, commissioni di controllo) ma gli elettori desiderosi d’alternanza. Non erano rimasti che loro, come Indro Montanelli aveva previsto molto bene quando aveva detto di Berlusconi, poco prima del voto nel 2001: «Lasciamolo governare, così gli italiani sperimenteranno sulla loro pelle chi è Berlusconi e ne usciranno vaccinati per sempre». E il popolo è stato chiaro, nel dire quel che vuole: ha approvato una coalizione che richiamando Prodi al comando ha smesso le abitudini da prima repubblica, le congiure partitocratiche, gli arcani poteri di veto esercitati alle spalle dell’elettorato. Non si vede perché dovrebbe accettare una riedizione di queste condotte a destra, proprio ora che ha imposto una svolta ulivista al centro-sinistra.
Le parole non sono mere movenze mandibolari. Hanno un loro peso, risvegliano immagini, s’insediano nella memoria. Ritirare i ministri da un governo, e promettere lealtà al capo dello stesso governo sperando magari che la coalizione resti unita nelle prossime politiche, è qualcosa che gli italiani hanno già visto nella propria storia. E non solo l’hanno visto ma l’hanno patito, pagandolo con decenni di democrazia senza alternanza. Chi rompe senza dire i perché della rottura e senza spiegare cosa farà dopo la rottura fa parte d’un mondo che gli italiani non rivogliono più, reputandolo vecchio. Dare a questa sindrome di supermercato il nome furbo di discontinuità è una beffa che difficilmente digeriranno, anche se procurerà delizie mai spente a giornali e tivvù.