È caduto, goffamente e rumorosamente, Silvio Berlusconi. E se pure dovesse farcela a rialzarsi per rimediare l’incarico di formare il nuovo governo con un nuovo programma, sarà comunque un premier azzoppato. Si è ficcato da solo, il premier, nelle incognite di una crisi al buio. Ben peggiore di quelle tanto vituperate nella prima Repubblica, giacché la stessa possibilità offertagli dagli alleati di «pilotare» la crisi verso il «bis» è stata sfacciatamente sacrificata sull’altare dell’«orgoglio» del «comando unico». Solo ieri, di fronte al Parlamento dove era stato opportunamente rinviato dal capo dello Stato, Berlusconi si è deciso a considerare il «conflitto» e la «dialettica», non solo tra la maggioranza e l’opposizione ma all’interno stesso della coalizione di governo, come espressione «fisiologica» della democrazia.
Più che una mossa tardiva, rispetto alle 16 estenuanti e convulse giornate, dal verdetto delle elezioni regionali, in cui si è consumato il gran rifiuto delle dimissioni agli alleati, al capo dello Stato, al Parlamento e al paese, lo show down in Parlamento del premier si è rivelato tanto maldestro quanto controproducente. Anziché riconoscere, con un po’ di onestà politica, l’«errore» dell’impuntatura, rinfacciatogli persino dal più accomodante (a confronto di Marco Follini che i ministri dell’Udc li ha comunque ritirati) Gianfranco Fini, alla fine della giostra il premier si è acconciato a subire il passaggio della crisi alla stregua di una fastidiosa formalità. Ma così facendo ha spuntato con le sue stesse mani l’arma delle elezioni anticipate mostrata per reclamare la «fiducia» della sua maggioranza.
Non è certo l’abuso della retorica («Fiducia in noi stessi, fiducia nei nostri valori, fiducia nella nostra storia») a occultare la clamorosa confessione del rischio che il centrodestra possa non sopravvivere come entità bipolare. Dalla «regola», condivisa con lo schieramento alternativo del centrosinistra, vuole che «se l’esecutivo scelto dagli elettori entra in crisi, sono gli stessi elettori a dover decidere del destino politico del paese, a norma di buon senso e secondo la nostra Costituzione», discende che tanto rituale non sia il passaggio della crisi di governo. La contraddizione diventa ancora più evidente quando lo stesso premier parla di «una sfida che intendo accettare». Su cosa In effetti, è in gioco la natura e il carattere della coalizione di governo. Non a caso la parola chiave della crisi è la «discontinuità». Dall’«asse del Nord», formato dal populismo di Forza Italia e dall’oltranzismo della Lega, all’equilibrio più moderato perorato dall’Udc e (sia pure senza convinzione, essendo rimasta a metà del guado) da An. Lo stesso Berlusconi, rivolgendosi alla sua maggioranza, ha evocato una «trasformazione» di questa parte del bipolarismo italiano. Ma, a parte la buffa rincorsa dei processi politici attraverso i quali la parte avversa si è ricompattata e ha recuperato credibilità e consenso tra gli elettori, se questa è la posta della «sfida» interna al centrodestra, a maggior ragione ha bisogno di un arbitro, quantomeno per garantire che la contesa non si scarichi sulle istituzioni e sul paese. Dunque, l’arroganza con cui il premier ha liquidato come «formali» i passaggi fondamentali della crisi del governo, non è offensiva solo nei confronti del presidente della Repubblica, ma anche se non soprattutto (sul piano politico) nei confronti di quelle componenti del centrodestra che hanno sollevato la questione dell’identità e della conseguente leadership del centrodestra.
A ciascuno il suo: all’Udc e ad An l’aggiornamento del programma per difendere il potere d’acquisto delle famiglie, sostenere le imprese e rilanciare il Sud, alla Lega la conferma della revisione della Costituzione. Lo avrà anche fatto per soddisfare cinicamente un po’ tutti, e furbescamente evitare di fare i conti anzitempo con il nodo della devolution leghista che strozza i favori a suo tempo raccolti nel Mezzogiorno, ma l’intreccio di causa ed effetto tra la riproposizione della manomissione della Costituzione e la rimozione delle «lunghe ed estenuanti crisi politiche e verifiche parlamentari» restituisce la crisi al redde rationem del berlusconismo. Se ha visto giusto Umberto Bossi nel prefigurare uno scontro «tra il governo del popolo e il governo del palazzo», ha però sbagliato i soggetti della partita, giacché la bandiera issata dalla Lega sul ministero delle Riforme, ma anche i giochini di Berlusconi per neutralizzare l’insidia della rivendicazione di An della stessa poltrona per Francesco Storace o chi per lui, provano che è il populismo ad arroccarsi nel palazzo. E a rinnegarsi di fronte al verdetto pronunciato 16 giorni fa dal popolo sovrano. Anzi, gestendo la partita alla stregua di un giro di poltrone, Berlusconi rischia di darsi definitivamente la zappa sui piedi. Già l’Udc bolla come «personali» le trattative dei suoi ministri (a cominciare dal passaggio di Rocco Buttiglione alla Sanità), ma si è anche messo di traverso alla pretesa berlusconiana che al Quirinale salisse la «squadra» della Casa delle libertà nel suo insieme, segnalando così che il «chiarimento» impedito con il dibattito alle Camere dovrà cominciare proprio davanti al capo dello Stato e proseguire al tavolo con il premier solo una volta che Ciampi avrà formalizzato il reincarico. Follini non prospetta un cambio di maggioranza, lasciando che sia il premier dimissionario ad assumersi l’onere di prefigurarne una diversa nell’eventualità delle elezioni anticipate, ma appare intenzionato a portare la controffensiva sulla discontinuità politica, programmatica e di governo fino in fondo, al punto da rinunciare alla propria poltrona di vice premier. Su Berlusconi, invece, pende il marchio del governicchio, pregiudizievole per ogni rivendicazione di leadership per il 2006. Come dire che la «buffonata» del passaggio al «bis», definita tale proprio dal leader pigliatutto, è ancora da consumare.