Sin
dallo scorso ottobre il Partito democratico ha affermato, parlando di
«vocazione maggioritaria», una logica fortemente contraddittoria
rispetto a quella del Porcellum, che incentiva invece l’aggregazione di
tutte le sigle possibili, trattando il programma di governo come una
variabile dipendente. Il termine «vocazione maggioritaria» si
riallaccia alla strategia del Labour Party che decise di cercare in
proprio di convincere gli elettori, con una grande svolta
politico-culturale, senza perseguire la scorciatoia di accordi di
desistenza a scacchiera coi Liberali in funzione anti-conservatrice.
Non si deve sommare ciò che non è omogeneo perché si può vincere, ma
poi non si governa e quindi la vittoria è fatalmente effimera,
condannata ad essere smentita al turno seguente, quando i propri
elettori si saranno spazientiti e gli altri mobilitati.
Non
stiamo quindi parlando di una sorta di testimonianza impotente, di una
forma di integralismo settario, ma esattamente del contrario, di una
strategia consapevole del rischio, quando sarebbe invece l’insistere
sulla routine ad essere condannata dai cittadini. Per farla finita con
la logica sbagliata sarebbe stato meglio per tutti un sistema
elettorale diverso che portasse a vincitori chiari, ma omogenei, come
il sistema francese. Non si può però, in mancanza di una riforma,
smentire se stessi: lo esclude l’etica della responsabilità che impone
di anticipare sul piano dei comportamenti ciò che si vorrebbe sul piano
delle regole. Non si può negare l’evidenza: sul piano nazionale, pur
con un ottimo Presidente del Consiglio e un’eccellente squadra, la
litigiosità della coalizione ne ha determinato la caduta e reso
impossibile una ripetizione. Non possono essere recuperati coloro che
hanno determinato la fine di quell’esperienza, parti moderate
dell’alleanza, ma è altresì necessario segnalare che il modo con cui la
sinistra arcobaleno ha affrontato il rapporto con l’Onu, con la Nato,
con la politica estera e militare in un mondo post-bipolare insicuro,
non è stato e non è all’altezza con una collocazione di Governo.
Ci
sono state anche altre aree problematiche, ma lì dei compromessi sono
più facilmente possibili, e questo spiega e legittima la prosecuzione
possibile dell’alleanza negli enti locali e nelle regioni, ma
sull’affidabilità internazionale i margini sono minimi: la missione in
Afghanistan, votata all’unanimità dall’Onu, o si rifinanzia oppure no.
Dal momento che le elezioni non hanno solo la finalità di trasformare i
voti in parlamentari, ma anche di fare una scelta per il Governo è
giusto essere trasparenti: ammesso che si possa vincere (ma ci si può
riuscire solo se gli elettori non hanno già potuto vedere l’inganno),
insieme non potremmo governare. Né si può affermare che si tradisce il
bipolarismo se non si accoglie tutto ciò che si muove alla sinistra del
centro: Zapatero per le elezioni del 9 marzo, per ragioni analoghe, non
ha certo presentato un programma comune con Izquierda Unida.
Da
varie parti viene proposta un’obiezione pratica: com’è possibile
vincere alla Camera e persino al Senato nelle Regioni «rosse» se il Pd
sta sì e no al 30% mentre la «gioiosa macchina da guerra» del
centrodestra parte sopra il 50%? Non basta certo la replica, pur vera,
che replicando l’Unione, si potrebbe al massimo puntare a consolidare
il solo elettorato di appartenenza giacché quello di opinione, se è
realmente tale, l’opinione se l’è già formata in senso negativo e al
massimo potremmo contare sulla sua clemenza con un’astensione dal voto.
Credo che si possa accettare la sfida con una triplice convinzione. In
primo luogo è sbagliato partire dai risultati del Senato della volta
scorsa dove sciaguratamente fu fatta la scelta di andare separatamente
tra Ds e Margherita, perdendo vari punti percentuali rispetto alla
Camera, dove andammo uniti con l’Ulivo, che è il vero elemento di
comparazione omogeneo. Già questo dovrebbe far capire come le Regioni
«rosse», dove quello scarto fu maggiore della media, non siano a serio
rischio. In secondo luogo credo che esista, al confine con la Sinistra
arcobaleno, un’area quantitativamente significativa di elettori, pur
non enorme, pari a qualche punto percentuale, che è disposta a votare
la proposta che più sembri in grado di essere credibilmente alternativa
al centrodestra. Un’area che ragiona in termini di «voto utile», non
testimoniale.
In terzo luogo si tratta di scommettere sulla
consistenza quantitativa e qualitativa di un’area di elettori di
centro, quantitativamente ben più ampia, in grado di spostarsi sulla
base delle proposte programmatiche. Proposte che non consistono solo
nella loro enunciazione, ma soprattutto nella credibilità per tradurle
in pratica e da questo punto di vista non c’è dubbio che, a parità di
altri fattori, il Pd sia molto più credibile di un caravanserraglio da
Casini a Bossi passando per Storace. E dove peraltro, nel migliore dei
casi in termini di voti e seggi al Senato per il centrodestra, sia
Casini sia Bossi sarebbero ciascuno determinante. Nelle elezioni
politiche questa ampia disponibilità a cambiare che vale doppio (perché
sono voti che si sottraggono agli uni e al tempo stesso si aggiungono
agli altri) si è manifestata in forma minima perché mai è stata tentata
un’offerta rivoluzionaria, di cambio radicale di schema come farebbe
ora il Pd, ma tutti l’abbiamo vista nelle elezioni sugli altri livelli.
Il centrodestra è riuscito a vincere a Bologna e il centrosinistra
Trieste. So bene che il voto politico è più rigido, ma bisogna
scommettere sulla capacità di discernimento degli elettori che in
questo caso, prima che essere tra centrosinistra e centrodestra,
sarebbe tra omogeneità e confusione.
Infine, alcuni di coloro
che pur in linea generale sono disponibili ad accettare questa sfida,
anche consigliati da tecnici estrosi, capaci di aggirare la legge
elettorale che richiede sia alla Camera sia al Senato un programma di
governo e un candidato Premier con alleanze in entrambi i casi
nazionali, suggeriscono dei temperamenti a questa strategia chiara e
netta. C’è ad esempio chi immagina di dividersi alla Camera e di unirsi
al Senato (il rovescio dell’Ulivo del 2006), ma qualcuno dovrebbe
rinunciare al candidato Premier al Senato e dovremmo forse depositare
programmi diversi per le due Camere, se uno dei due non rinuncia al
suo. C’è poi chi vorrebbe liste ad hoc in qualche Regione dove
scomparirebbero sia il Pd sia la sinistra arcobaleno sia i veri
candidati Premier. Chi pensa a questi espedienti trascura che la
«vocazione maggioritaria» è come una nuova nascita. Non si può essere
incinti a metà: o si sceglie il rischio o la routine, non si possono
fare scelte costituenti a Camere o Regioni alterne.