10 Ottobre 2006
Partito democratico, sfida senza nostalgie per cambiare la politica
Autore: Filippo Andreatta
Fonte: Corriere della Sera
Il recente seminario di Orvieto ha orientato in modo decisivo il percorso del Partito Democratico. Non si tratta più del «se» ma del «come» si farà, e questa è una buona notizia sia per chi è appassionato al progetto, sia per chi è interessato alla modernizzazione del sistema politico italiano. Grazie soprattutto alla memorabile relazione di Salvatore Vassallo, è anche già cominciata la discussione sulla forma del nuovo partito tra chi caldeggia un partito aperto ai propri aderenti, sulla base del principio «una testa, un voto», e chi più tradizionalmente ritiene che gli apparati debbano continuare ad avere un peso determinante nelle decisioni. Quest’ultima prospettiva comporta però tre rischi che vale la pena di esplicitare perché potrebbero indebolire il Pd ancora prima che veda la luce.
In primo luogo, si rischia un partito «nostalgico» a livello ideologico. Destano preoccupazione in questo senso i dubbi dei cattolici-democratici emersi a Chianciano la settimana precedente ad Orvieto e dei social-democratici espressi dal Correntone ma anche da altri sulla necessità di «garantire» queste famiglie riformiste dal pericolo di estinzione. Questo dibattito rischia di spostare l’attenzione dalla necessità di identificare, con l’attenzione rivolta al futuro, un nuovo insieme di valori per il Partito democratico, alla mediazione, rivolta al passato, tra famiglie politiche che intendono confluire nel Pd. In altre parole, le resistenze provenienti da parte cattolica e socialista rischiano di oscurare l’esigenza di elaborare un’identità «democratica» del nuovo partito.
In secondo luogo, il Pd nascerebbe limitato dalle divisioni interne tra correnti. A chi può chiedere una garanzia il gruppo di ceto politico che si richiama ai Popolari o quello che si richiama al Correntone? Solo ad altri esponenti del ceto politico, alla segreteria del proprio partito o a quelle dell’altro. Gli apparati di Ds e Margherita si legittimerebbero quindi a vicenda, nel nome del pluralismo culturale e della garanzia dell’altro, a scapito però di un processo libero e partecipato perché questo comporterebbe l’incertezza sulle quote di rappresentanza dei gruppi dirigenti del passato. Il Pd diventerebbe così un partito di notabili espressione di particolari sensibilità, e non di sintesi autenticamente nuove in linea con le sfide del XXI secolo.
In terzo luogo, è preoccupante l’ipotesi di una semplice giustapposizione di Ds e Margherita in quanto comporta dei forti rischi a livello elettorale. Perché mantenga le sue promesse di essere capace di spostare verso il riformismo l’asse del centrosinistra e di stabilizzare le maggioranze di governo, il Pd dev’essere un partito «grande» e in grado di aggregare un consenso sensibilmente superiore a quello dei due partiti presenti ad Orvieto.
Se non è possibile o pratico allargare il perimetro dei partiti che partecipano al progetto includendo anche le altre formazioni del centrosinistra allora il modo migliore di ampliare il bacino elettorale del nuovo soggetto è quello di aprirlo direttamente agli elettori del centrosinistra, inclusi quelli che non si riconoscono in Ds e Margherita. Solo un processo autenticamente aperto e partecipato, che rappresenti un nuovo modo di concepire la politica, invece che un accordo di vertice, può ambire a modificare radicalmente gli equilibri politici del centrosinistra e del paese. È giusto rassicurare chi ha dei dubbi ad abbandonare le proprie gloriose insegne per un nuovo partito, ma una cautela eccessiva verrebbe pagata a caro prezzo anche in termini di voti.