Il Partito democratico è un progetto complesso e ambizioso, che può reggere solo se nasce senza troppe finzioni, con un leader forte e riconosciuto, nel pieno esercizio del ruolo. Le decisioni prese a questo riguardo dal Comitato dei 45 sono deludenti e ambigue. Contraddicono quello che molti autorevoli dirigenti del centrosinistra hanno sostenuto negli ultimi mesi, e deludono un’aspettativa ormai largamente diffusa tra i sostenitori dell’Ulivo: che il leader del nuovo partito debba essere scelto direttamente dagli aderenti. Nello stesso Manifesto, ufficialmente acquisito come termine di riferimento ideale per la fase costituente, c’è scritto: «Ci impegniamo a costruire un partito che, sin dalla sua fase fondativa, sia aperto alla partecipazione di una larga platea di cittadini, e affidi al loro voto, diretto e segreto, la scelta della leadership».
Fino a poche settimane fa si era affermata l’ipotesi, a cui anche chi scrive si era ingenuamente accodato, secondo cui si dovesse prima consentire all’Assemblea costituente di approvare lo Statuto, e poi, solo in un secondo momento, eleggere gli organi dirigenti. Sarebbe stato ragionevole non eleggere il leader a ottobre, perché lo si sarebbe fatto entro sei mesi o un anno al massimo, in occasione del primo Congresso ordinario. I 45 hanno invece deciso che l’Assemblea costituente eleggerà un presidente e un segretario destinati presumibilmente a durare, secondo quanto ha detto Romano Prodi, fino a «primarie» (non si sa se di partito o di coalizione) che si terrebbero solo in vista delle successive elezioni politiche. Insomma, l’accelerazione sui tempi, in se stessa opportuna, coincide con una drastica retromarcia sulle forme della democrazia interna.
È evidente che, nella attuale fase di transizione, l’elezione diretta del leader potrebbe entrare in conflitto con un altro principio fondativo del nuovo partito: la tendenziale, auspicabile coincidenza tra leadership e premiership. Ma questo potenziale conflitto non può essere risolto invertendo l’onere della prova. Assumendo cioè che il presidente del Consiglio in carica sia, per un diritto acquisito alle primarie dell’Unione, anche leader del Pd. Non è una questione formalistica. I dirigenti di Ds e Dl hanno facilmente riconosciuto a Prodi la presidenza del partito, ma è del tutto ragionevole che non intendano concedergli «a tavolino» anche il potere (effettivo) di nominare come segretario un suo fiduciario.
In queste condizioni, la creatura rischia di nascere zoppa, con un imprinting di cui difficilmente si libererà. All’ombra di una imprecisata concezione «federale» del partito, alle elezioni del 14 ottobre potrebbe non esserci né la scelta del leader né un confronto tra orientamenti politici nazionali.
La competizione nei vari collegi rischia di essere improntata al più puro personalismo, all’antagonismo tra esponenti locali di seconda e terza fila, disancorato da qualsiasi visione progettuale. L’esito delle elezioni rischia di essere misurato con un solo metro: il numero, tra gli eletti, di fassiniani, lettiani, franceschiniani, d’alemiani, mariniani, chiampariniani o bassoliniani, di amici di Loiero o suoi nemici (ecc., ecc.). Ad Assemblea costituente insediata, il presidente sarebbe eletto per acclamazione, il segretario verrebbe verosimilmente scelto in un negoziato a porte chiuse tra Prodi e alcuni tra i principali esponenti Ds e Dl, per essere poi sottoposto alla ratifica dell’Assemblea. Uno svolgimento neodemocristiano come questo può interessare il ceto politico, alcuni tra gli iscritti attivi dei partiti esistenti e quei segmenti della cosiddetta «società civile» che si domandano se c’è un posto anche per loro. Pochi altri.
In conclusione, se la carica di presidente non è contendibile, dovrebbe esserlo almeno quella di segretario, affidando democraticamente la scelta agli elettori del 14 ottobre. In questo modo sarebbero la qualità delle candidature e il risultato del voto a stabilire se il segretario deve essere un fiduciario di Prodi, un primus inter pares o il vero leader. Sarebbe un modo, ancorché indiretto, per verificare se Prodi è in sella. E per dare, comunque vada, una legittimazione più forte a chi dovrà guidare il Pd nei prossimi difficili mesi, quando dovrebbe finalmente prendere forma, nella percezione dell’opinione pubblica e sul territorio, nel mentre attraversa acque burrascose, tra turbolenze nella maggioranza, bordate esterne, riforma delle pensioni, referendum e riforma della legge elettorale.