Roma. Arturo Parisi è in vacanza ed è perfettamente sereno. A scanso di equivoci, invita però a distinguere “la serenità dal rigore”, anche se in Italia “spesso si confondono ruoli e sentimenti, forse perché siamo troppo abituati agli inciuci”. Un’abitudine che certamente Parisi non ha mai preso, come dimostra la tenacia con cui procede nella sua battaglia per la “democrazia nei partiti”, a cominciare dalla questione del ricorso sulla legittimità dell’ultima assemblea costituente, che appoggia in pieno (e che rischia di finire in tribunale: “Mi auguro che gli organi di garanzia del Pd si facciano carico di questo problema, perché se questa domanda di legalità e di partecipazione fosse delusa, sarebbe inevitabilmente costretta a cercare altre strade”).
E come dimostrano anche l’asprezza con cui Parisi denuncia la “spirale depressiva” in cui sarebbe caduto il Pd, con dirigenti che “invece di impegnarsi nella costruzione del partito, sono tutti presi nel predisporre scialuppe e scialuppette di salvataggio, sotto i più vari titoli, per il proprio futuro personale o di gruppo”; o la forbita brutalità con cui parla del rischio che le prossime europee siano “non solo un sostituto funzionale delle elezioni nazionali, ma addirittura un sostituto funzionale dei congressi di partito” (il che, tradotto dal linguaggio accademico, significa una resa dei conti, per non dire un processo al segretario). E come dimostra, infine, la pignoleria con cui ricorda a Walter Veltroni – reo di avere detto che presto si capirà quanto straordinario sia stato il “34 per cento” raggiunto alle politiche – che “33 e1 non significa 33 più 1, ma 33 virgola 1 decimale” (“Da professore esortavo i miei allievi dinanzi ad uno 0,1 – figuriamoci uno 0,9 ! – a togliersi il cappello perché lo 0,1 rappresenta 60 mila cittadini, l’equivalente cioè di quanto basta per governare una città di oltre 100 mila abitanti. E in altri tempi, per conquistare una città di 100 mila abitanti si faceva un assedio di dieci anni”).
Fedele al suo motto di serenità e rigore, l’ex ministro della Difesa non fatica dunque ad ammettere i risultati ottenuti dagli avversari in questi primi cento giorni di governo. Sebbene, naturalmente, a modo suo. “Stanno facendo quello che si erano proposti di fare e forse anche di più. Quindi,dal loro punto di vista, direi bene. Purtroppo, non mi sentirei di dire lo stesso per il paese”. E comunque, in quel “di più”, vanno messe anche “le molte forzature compiute o tentate nell’interesse personale del capo del governo, sulla giustizia o sulle televisioni, che lasciano uno strascico avvelenato per il futuro e che non possiamo dimenticare”. Pur con tutte queste non secondarie precisazioni, quello di Parisi resta comunque un riconoscimento al governo, ma pure un allarme per l’opposizione.
“La manovra finanziaria è guidata dalla necessità di mandare un messaggio ai mercati sul pareggio di bilancio e di mandarlo in fretta, assumendo a riferimento le scelte fatte dal governo Prodi. E questo è condivisibile. D’altra parte, anche noi avevamo annunciato l’intenzione di intervenire sulla spesa pubblica. Poi naturalmente bisogna vedere come lo si fa”. Ma è certo che sulla campagna elettorale ha pesato, per tutti, un “cambiamento di clima”. La consapevolezza che “il tempo delle vacche grasse è finito”. Una consapevolezza che si è tradotta però in due campagne molto diverse. “Quella del centrodestra è stata guidata dal teorema del suo intellettuale unico, che ha affidato l’annuncio della nuova fase al suo ultimo titolo”. Il titolo del saggio di Giulio Tremonti (“La paura e la speranza”). In senso letterale, perché “la maggior parte dei lettori legge solo i titoli, e spesso pure a sbafo, direttamente in libreria”. Secondo Parisi infatti “l’operazione di Tremonti” sta lì, nell’avere “reintrodotto la parola ‘paura’ nel linguaggio politico”. E lì, volendo, sta anche il limite dell’opposizione. Il limite di una campagna incentrata anche troppo sulla speranza. “Il profilo della leadership e la comunicazione di Veltroni erano e restano legate a un pensiero positivo, a una stagione in cui ai politici veniva chiesto innanzi tutto di sorridere”. Conseguenza: “Un’incoerenza del nostro messaggio, che mentre riconosceva nel programma un passaggio di fase, al tempo stesso comunicava tutt’altro attraverso il giro d’Italia e le varie proposte che quotidianamente Veltroni avanzava all’uditorio di turno”.
Di qui il fenomeno che Parisi ha chiamato “maionese impazzita”. E che a suo avviso comincia con la famosa “separazione consensuale” da Rifondazione comunista. “Per quindici anni la nostra linea è stata ‘uniti per unire’. La separazione dalla sinistra è stata l’esatto contrario, guidata dalla logica proporzionalista secondo cui divisi si vince. E’ questa logica che ci ha portati alla sconfitta, anche se ora sento dire che era tutto previsto, sin dall’inizio, come se non avessimo passato la campagna elettorale a ripetere il ritornello del sorpasso imminente. Conservo ancora un indimenticabile sms di Dario Franceschini, mandato il giorno del voto…”Ce la stiamo facendo…” E poi, se davvero la sconfitta era prevista e dunque il 33,1 è veramente un successo, come spiegare l’alleanza con l’Italia dei valori?”. Se davvero al Pd fossero mancati solo 4 punti, dice Parisi, “non ci sarebbe stato scemo sufficientemente scemo da criticare quell’accordo”. Ma in caso contrario, come spiegare che in una campagna segnata dal “massimo avvicinamento possibile a Berlusconi”, si sia scelto come unico alleato “chi più di tutti aveva fatto dell’antiberlusconismo la propria battaglia qualificante?”. Insomma, “non c’era bisogno di aspettare l’estate per scoprire che ‘il principale esponente dello schieramento a noi avverso’ era il Berlusconi e che Antonio Di Pietro era il Di Pietro che conosciamo da sempre”.
Ma il problema di oggi, secondo Parisi, non è l’ex pm. “Il problema è la schizofrenia che stiamo provocando nei nostri elettori. Da un lato alimentiamo la contrapposizione al berlusconismo, dall’altro non facciamo seguire alle nostre parole comportamenti conseguenti. Sì a una manifestazione, però non subito; sì alle firme, ma non per il referendum. E invece Piazza Navona e referendum sul lodo Alfano dovevano essere un impegno del partito, non essere lasciati in esclusiva di Di Pietro quando va bene e quando va male del grillismo e dell’antipolitica. Con noi organizzatori in piazza non ci sarebbero stati nè Grillo nè Guzzanti. Non si possono eccitare gli animi e poi non incanalare questi sentimenti verso esiti governabili”.
Per uscire da questa situazione, Parisi aveva proposto il congresso. Anzi: “Unico, mi ero associato alla richiesta di Veltroni, che all’indomani delle elezioni aveva detto di non ritenerlo necessario, visto che non considerava il risultato del voto un insuccesso, ma considerato il modo in cui il partito aveva allora cominciato a viverlo, ne riconosceva il senso, e aveva anche proposto la data del 14 ottobre”. Per il congresso non ci sono i tempi, però, perché il tesseramento è stato appena avviato. Dunque si convochi l’assemblea eletta dalle primarie, dice Parisi, che è l’unica platea legittima. “Walter Veltroni e Massimo D’Alema si presentino lì, con le rispettive proposte, perché solo un chiaro confronto di progetti è utile. Non lo svolgimento nel futuro di un passato che non mi riguarda, come questa sotterranea lontana contesa interna nata nemmeno nel Pci, ma addirittura nella Fgci”. Anche perché, se si vuole trattare con la maggioranza sul federalismo, prima si dovrà pure avere una linea sulla forma di governo. E le linee, nel Pd, a oggi sono almeno due: semipresidenzialismo francese e cancellierato tedesco. Su questo serve dunque un “mandato chiaro”. Serve una sede legittima “in cui svolgere un confronto e prendere decisione impegnative”. Non certo, quindi, “un convegno culturale”, come Parisi definisce ironicamente la conferenza programmatica prevista in autunno.