Roma – Gli scoppi di Sahel el
Dardara che hanno ucciso sei uomini del contingente spagnolo sono una brutta
scossa, ma non una sorpresa. Per l’Unifil-2, la forza multinazionale mandata
in Libano dall’Onu l’estate scorsa, il pericolo era previsto. Da mesi il
governo italiano temeva attentati di gruppi slegati da Hezbollah. Sulla base
dei rapporti dei servizi segreti, le preoccupazioni per la missione delle
Nazioni Unite nella quale schieriamo 2.450 militari non venivano da
possibili attacchi del Partito di Dio.
«Più che dalle fazioni libanesi,
riguardano azioni terroristiche di gruppi legati ad al Qaeda», aveva
ricapitolato Massimo D’Alema il 10 maggio. Un’impressione della quale le
forze armate erano al corrente. «Che il Libano fosse una delle aree più
delicate nel dramma mediorientale, purtroppo lo sappiamo e lo abbiamo perciò
detto a chiare lettere fin dal varo della nuova missione Unifil », faceva
presente ieri sera al Corriere il ministro della Difesa Arturo Parisi. «D’altra
parte le missioni, soprattutto quelle per la pace, sono per la loro stessa
natura chiamate dall’appello delle Nazioni Unite a operare in aree di
conflitto, per spegnere e governare le fiamme a nome di ognuno di noi ogni
volta che divampa un incendio», ha sottolineato Parisi. In altri termini:
non che ci piaccia, però ci è chiaro quali pericoli bisogna fronteggiare.
«In questa consapevolezza sta il merito e il valore dei militari, dei nostri
come degli spagnoli che adesso piangiamo come nostri fratelli», ha aggiunto
il ministro. Parisi parlava così dopo aver telefonato al suo collega José
Antonio Alonso Suarez per dargli una solidarietà analoga a quella che Romano
Prodi ha espresso al presidente del governo di Madrid, José Luis Zapatero, e
D’Alema al ministro degli Esteri spagnolo, Miguel Angel Moratinos. Il
titolare della Farnesina ha condannato l’attentato di Sahel el Dardara come
«atto di ingiustificata violenza che colpisce forze di pace che operano
sotto mandato dell’Onu». Dalle parole dei ministri italiani si ricava una
conferma: nessuno dei due pensa di mettere in discussione la permanenza
delle nostre truppe in Libano. Tentazioni di andar via? «No. Assolutamente.
Anzi, a maggior ragione c’è la volontà di presidiare un’area che sennò
rischia di far compiere un’ulteriore passo alla propagazione dell’infezione
partita dall’Iraq», dice al Corriere Ugo Intini, il vice ministro degli
Esteri con delega per il Medio Oriente. «Già da tempo con D’Alema
affermavamo che in Libano, in particolare nei campi palestinesi, c’era il
pericolo di infiltrazioni di al Qaeda. L’Iraq si rivela un’infezione da
esportazione: da lì viene ripresa la tecnica delle bombe lungo le strade»,
continua Intini. E sostiene a chiare lettere una tesi che D’Alema ha
delineato in modo implicito il 5 giugno a Damasco. «Per impedire queste
infiltrazioni c’è una forte vigilanza di al Fatah, ovviamente, ma anche di Hamas
e Hezbollah», dichiara il viceministro. Oggi a Parigi D’Alema incontrerà
Condoleezza Rice. L’argomento principale dell’incontro doveva essere il
Kosovo. Il Libano non sarà marginale.