Nello studio 5 di Cinecittà, i riflettori si accenderanno
stamattina alle 11 per illuminare Romano Prodi che aprirà i lavori del
congresso della Margherita, dopodiché la parola passerà al presidente del
partito Francesco Rutelli, la cui ambizione è parlare sì di «ingegneria»
partitica, ma anche dei problemi concreti del Paese.
Un congresso in gran
parte risolto nelle settimane scorse dalle trattative dei notabili e
soprattutto dalla crudezza dei dati che riguardano i delegati; anche se
esiste una quota di «indefinibili» e contestati, i rutelliani hanno una quota
di delegati che oscilla tra il 20 e il 28%, i popolari sono largamente
maggioritari, essendo attestati tra il 62% e il 70%, mentre il restante 10%
se lo dividono parisiani e diniani.
Le incognite del congresso sono tre: chi
prenderà il posto dell’attuale tesoriere, di fede rutelliana? Su quali
percentuali si chiuderà l’accordo tra popolari e rutelliani per l’Assemblea
federale? Che tipo di intervento farà il sempre imprevedibile Arturo Parisi?
A 24 ore dall’apertura del congresso della Margherita, il ministro della
Difesa si è preso una vacanza dal marziale palazzo Baracchini, è tornato nel
suo vecchio studio di piazza Santi Apostoli, lì dove fu «seminato» il primo
Ulivo, quello del 1995. L’uomo attribuisce a certi luoghi e a certe date un
valore potentemente simbolico e sull’onda della suggestione si produce in
alcune esternazioni dense e taglienti, anticipazioni del suo atteso discorso
al congresso di Cinecittà, fissato per sabato alle 13.
Guardando i
simboli dell’Ulivo, Parisi scarta uno dei suoi paradossi: «Il nostro cammino
è iniziato nel 1994, siamo nel 2007 e dunque da allora sono passati 12 anni.
Bene, penso che servirà il tempo di una generazione, 25 anni, prima che la
transizione si compia, prima che il processo si possa dire veramente
compiuto: un vero partito democratico potremo averlo nel 2019…». E’ uno di
quei paradossi amati da Parisi, ma poi se gli si chiede quando potrà
condensarsi un primo, spurio cimento del nuovo partito, il professore
sardo-bolognese sembra indicare una data meno lontana del 2019:
«La prova del
budino si avrà solo quando batteremo l’altro schieramento alla pari, con due
formazioni equivalenti».
E il primo cimento del Pd? La sfida per la
leadership prevista nel 2008? Ancora una volta Parisi spiazza tutti: «Se ci
fosse una sola candidatura, inevitabilmente, proprio per aiutare il processo,
scenderei in campo anche io!». Una battuta paradossale che vuol dire: il Pd
ha un senso se è una sfida continua, aperta e democratica su tutto». E la
Margherita che chiude i battenti? «Rutelli ha tenuto sul progetto, senza di
lui il percorso che ci ha portato al partito democratico sarebbe stato più
difficile se non impossibile, ma vanno ricordati i cedimenti sulla gestione,
perché così potremo evitarli in futuro». In Europa dove si deve collocare il
Pd? «Un soggetto nuovo deve trovare una collocazione nuova». Dunque, cari
Ds, dimenticate di farci entrare nel Pse.
Parisi impaziente che corre
troppo? «Ogni volta che abbiamo dato un calcione, le cose si sono rimesse in
movimento». E la storia del Pantheon tirata fuori da Fassino? A Parisi non
sembra un espediente essenziale, ma non ironizza come altri e anzi rivela:
«Due anni fa era stato proprio Fassino a chiedermelo. Io gli risposi: i padri
costituenti». Dunque, il Pantheon di Arturo Parisi è presto fatto: De
Gasperi, Nenni, Terracini, Togliatti, Saragat, Ugo La Malfa, Einaudi,
Calamandrei, Riccardo Lombardi.