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22 Maggio 2008

Opposizione ombra

Autore: Andrea Romano
Fonte: La Stampa

Con la prima riunione del Consiglio dei ministri è
suonata la campanella anche per il «governo ombra»
di Walter Veltroni. Finita la ricreazione
post-elettorale, è il momento di mostrare al Paese
come si intendono svolgere i compiti dell’opposizione.
Se bastassero le buone maniere, ci si potrebbe
accontentare del clima di dialogo che Berlusconi e
Veltroni sembrano aver instaurato nei loro primi contatti.

Ma un’opposizione non vive solo di buona educazione,
tanto più che il Partito democratico deve rapidamente
definire una strategia nei confronti di quello che
ha tutta l’aria di essere un governo di legislatura.

Fino ad oggi, anche a giudicare dal discorso pronunciato in Parlamento in occasione del voto di
fiducia, Veltroni sembra aver impostato il proprio
ruolo sull’antico modello del «governo delle
astensioni»: il Paese vive un momento di emergenza,
il governo governi e il Pd si asterrà ogni volta che
lo riterrà utile all’adozione di misure condivisibili.
È il modello che fu adottato dal Pci negli anni della
solidarietà nazionale, lo stesso al quale si è
riferito Veltroni citando Enrico Berlinguer e Aldo
Moro a Ballarò di martedì sera. Un riferimento nobile,
ma del tutto fuori luogo nell’Italia del 2008.
Perché Silvio Berlusconi non ha alcun bisogno di un’opposizione conciliante, avendo ricevuto dalle
urne un pieno mandato a governare, e soprattutto
perché al Pd non basterà il dialogo per trovare la
propria ragion d’essere (a differenza del Pci,
viene da aggiungere, che proprio perché aveva una
fortissima ragion d’essere di natura trascendente
poté permettersi la stagione della solidarietà
nazionale).

Fuori dal perimetro politico del Pd sta rapidamente rafforzandosi un’entità di opposizione all’insegna dell’intransigenza e dell’indignazione moralistica,
dominata da quel Di Pietro con cui Veltroni ha
stipulato un’alleanza elettorale che attende ancora
di essere spiegata.
L’opposizione dipietrista può vivere serenamente di rendita, senza alcun bisogno di definire se stessa. Le sue ragioni sono quelle che hanno dominato il centrosinistra nella sua precedente stagione di opposizione tra il 2001 e il 2006 e che hanno segnato il destino dell’Unione durante il governo Prodi. Sono ragioni strutturalmente minoritarie e incapaci di arrecare il minimo danno al consenso del centrodestra, ma molto popolari presso una militanza allevata da anni
al culto della superiorità morale dell’antiberlusconismo. Per
rendersene conto basta leggere l’Unità di questi giorni: quello che in teoria dovrebbe essere il quotidiano del Pd è stato di fatto appaltato alle ragioni dell’Italia dei Valori, partito alleato ma già concorrente.

È
questo il problema che attende di essere risolto da Veltroni. Tra la
liturgia delle buone maniere e la vocazione minoritaria di Di Pietro,
il Pd deve trovare la via per definirsi come opposizione capace di
candidarsi al governo reale del Paese. Vasto programma, si dirà. Eppure
occorrerebbe accennare almeno un primo passo, evitando di cullarsi
nell’illusione che una tattica delle alleanze possa eliminare l’onere
della strategia politica. Cinque anni sono lunghi solo sulla carta. In
realtà quel tempo è appena sufficiente a riempire di contenuti lo
slogan della «vocazione maggioritaria». Per il Pd si tratta di superare
il recinto di una militanza dotata di voce ma non di consensi, di
comprendere il Paese reale e di convincere quell’elettorato di mezzo
che non è stato neanche scalfito dalla retorica veltroniana. Si tratta
di creare oggi la possibile maggioranza di domani, senza fidarsi troppo
dei propri riflessi condizionati. È ciò che viene normalmente fatto dai
grandi partiti europei: utilizzare gli anni di opposizione per
prepararsi a governare.