Non è solo un risultato politico
straordinario, il voto che ha dato vita al Partito democratico ieri, con più di
tre milioni di cittadini impegnati nelle primarie che hanno scelto Walter
Veltroni come leader con una maggioranza schiacciante; ma è un segnale per
tutti, al di là dei recinti di parte, che ci dice qualcosa di inedito e di
imprevisto sull’Italia di oggi, qualcosa che va controcorrente e dunque merita
di essere osservato con attenzione. Il Paese, dice questo segnale, non è
omologato ad un falso senso comune impastato con i materiali di un ribellismo
antistatale borghese e proprietario da un lato, e di una protesta popolare
nichilista dall’altro. Anzi. Se si apre lo spazio per una partecipazione nuova
al discorso pubblico – nuova nelle persone, nel linguaggio, nei riti, nei
contenuti – quello spazio viene occupato e dilatato, quasi rivendicato dai
cittadini: che lo rendono simbolico e dunque immediatamente significativo dal
punto di vista politico e persino culturale, distruggendo in un solo giorno la
povertà del cortocircuito che trasforma la politica in vaffanculo, ma anche
l’esibizione muscolare di piazze, minacce e sondaggi, che vede il confronto
politico come pura prova di forza.
C’è infatti l’evidente ricerca di un barlume
in fondo al grigiore di questi giorni, nella mobilitazione di un pezzo d’Italia
per partecipare alla fondazione di un partito. C’è la voglia quasi disperata di
un nuovo inizio. C’è la condanna per contrappasso di riti e giochi al massacro e
al piccolo lucro politico – qui parliamo della sinistra – che disamorano gli
elettori ad ogni rilevazione statistica, e sembravano averli consegnati al
disimpegno, separandoli dal destino dei partiti, vecchi e nuovi, e dal loro
divenire. Invece, e nonostante tutto, nel cosiddetto popolo della sinistra c’è
ancora una disponibilità alla speranza, a ripartire e a riprovare, se soltanto
si mostrano gli strumenti e gli uomini, i modi e le forme con cui tutto questo
potrebbe, forse, accadere. Nel cinismo dominante di oggi, non era affatto
scontato.
In una formula, e prima ancora di parlare di politica, la giornata di
ieri dimostra come per un pezzo rilevante d’Italia non si debba rinunciare a
credere che il cambiamento è ancora possibile. Per la sinistra, non è una
scoperta da poco, pochi giorni dopo il referendum sindacale nelle fabbriche, la
sua partecipazione, il suo risultato e soprattutto il suo significato. Come
scoprire di avere un popolo, e di averlo attivo e reattivo, dopo il timore –
diciamo la verità – di averlo perduto. Ma è per il Paese che questa riserva di
fiducia e di partecipazione può contare. Perché può ridare respiro alla politica
– tutta – e alle istituzioni, entrambe braccate. E perché separa la protesta di
questi mesi dalla sua frettolosa definizione: non era antipolitica, infatti, ma
richiesta di una politica “altra”, radicalmente diversa. In questo modo, la
ribellione può prendere la strada (la spinta) dell’impegno a cambiare,
separandosi sia dai pifferi dei demagoghi che pretendevano di guidarla, sia dai
tamburi dei populisti che speravano di dirottare il corteo.
E sia, soprattutto,
dai sospiri impazienti di chi da fuori pesava già le macerie
politico-istituzionali, sperando in una nuova supplenza
imprenditorial-terzista-professorale capace di forzare con alleanze da rotocalco
la costituzione, il bipolarismo e i partiti. E invece, ecco la parola “partito”
che spunta da questa palude in parte spontanea e in parte interessata di
disgusto per la politica, o almeno di disincanto e di lontananza. La cifra di
qualità del voto di ieri, a ben vedere, sta nel fatto che non si votava per un
premier, non si toccava l’intera platea di una coalizione, non si testimoniava
una presenza al gazebo contro Berlusconi al potere, com’era accaduto alle
primarie di Prodi e Bertinotti, con 4 milioni di cittadini-elettori.
Questa
volta è il richiamo di un partito che ha mobilitato più di tre milioni di
persone, in un momento di governo calante, berlusconismo quiescente, partitismo
languente. Com’è stato possibile? Perché non si tratta di un partito, ma di un
partito-nuovo, come il New Labour annunciato da Blair all’inizio della sua
avventura. Nuova la leadership, anche generazionalmente, nuovi i programmi,
nuova la liturgia e nuovo soprattutto lo strumento di partecipazione diretta dei
cittadini. In nessun Paese al mondo un partito moderno è nato dal coinvolgimento
diretto di tre milioni di persone, e dalla loro scelta attraverso il voto.
L’ultimo grande partito nato da noi – Forza Italia – è scaturito da una cassetta
tv registrata, nello studio del leader proprietario, che tra un ficus e la
scrivania annunciava di amare il suo Paese, nella solitudine elettronica del
messaggio televisivo.
L’Italia non è così distratta da non aver percepito la
differenza, e forse persino il suono drammatico dell’autenticità in quest’ultimo
tentativo di reinvenzione della sinistra, dopo i ritardi tragici della sua
storia, che hanno tanta colpa nelle sue sconfitte. E ha evidentemente percepito
anche la novità della leadership di Veltroni, se l’ha consacrata con un consenso
così alto proprio in una fase di caccia grossa all’uomo politico e a tutti i
suoi simboli. Anche la competizione molto dura con Rosy Bindi e il confronto
aperto con Enrico Letta, davanti agli elettori, hanno avuto il suono della
novità. Ma Veltroni ha significato qualcosa di più, qualcosa legato al
personaggio e al ruolo di sindaco di Roma: una sinistra capace di considerare le
ragioni degli altri, un professionismo con tocchi efficaci di dilettantismo,
dunque decifrabile e non distante, un linguaggio aperto a codici nuovi, un
orizzonte non più ideologico e tuttavia mitologico, una propensione dichiarata
all’innovazione, che oggi resta anche a sinistra l’unica rivoluzione possibile.
Si capisce da quanto abbiamo detto come da tutto questo Veltroni riceva oggi una
forza del tutto inedita nel mondo politico italiano.
La riceve non solo dai
numeri, ma dalla forma con cui sono stati espressi, dall’inedita coppia
leader-cittadini uniti prima ancora che nasca il partito, dallo spiazzamento
generale per una testimonianza politica massiccia in giorni di crisi della
politica. Ha un solo modo per non sprecarla: usarla. Capendo, prima di tutto,
che è una forza di cambiamento, per il cambiamento. Dunque, continuando a
cambiare, subito, a costo di strappare, come sarà inevitabile. Altrimenti, la
speranza che si è riaccesa si spegnerà, perché è l’ultima. Quel barlume che
s’intravede in fondo alla crisi è come una miccia accesa. Che ci spinge a
cambiare, tutti, ma con urgenza, per salvare il Paese.