Molti si aspettavano che Walter Veltroni, il
giorno in cui si è candidato ufficialmente alla guida del partito
democratico, usasse di frequente e con fervore la parola: «sogno». È
una parola che i politici del Novecento hanno usato spesso, e per la
verità non solo quando si predisponevano a conquistare il potere: fu
sogno anche quello di Martin Luther King, che non aspirava alla
conquista della Casa Bianca ma all’uguaglianza di diritti fra bianchi e
neri. Chi si aspettava un Veltroni sognante è stato deluso, e forse è
proprio qui la forza segreta del sindaco di Roma: forse è in questo suo
accostarsi al carpe diem di Orazio, che afferra il giorno presente e
risponde alle domande del giorno presente, sapendo che ci sono speranze
che i politici dilatano ad arte senza crederci, senza avere i mezzi
della città ideale che descrivono, senza sapere che sogni e speranze
sono fiamme che accendono ma anche inceneriscono, che possono esser
usate per edificare ma anche per sedurre i creduli. In un articolo
scritto poco prima del discorso di Veltroni al Lingotto, il 24 giugno
su la Repubblica, Ilvo Diamanti ha scritto qualcosa di profondo e fine,
che il sindaco probabilmente ha letto: «Non prometta di smuovere le
montagne, né di volare insieme oltre l’orizzonte. E non ci faccia
sognare. Gli scettici, come me, oggi, si accontentano di molto meno.
Ci
basta non provare disgusto a ogni risveglio». E’come se Veltroni avesse
inteso il messaggio e infatti prima di andare a Torino ha detto:
«Questo non è il momento dei sogni ma delle risposte concrete». In
fondo è qui la novità che oggi si chiede al politico: che smetta
l’abitudine ad affastellare una gran quantità di parole promettenti ma
ingannevoli; che tagli le ali ai sogni che non hanno rapporto con i
fatti e la realtà. Che sogni con serietà, semmai, alla maniera di
Martin Luther King: per dire il mondo che non c’è ancora ma che
s’impone, e non il mondo che gli servirà da trono di cartapesta o da
strumento d’una carriera. Questo discernere fra sogni si chiede al
politico, e non perché la nostra epoca si sia fatta cinica ma forse
perché si è fatta più desiderosa di verità. È aperta al sogno se esso
migliora la realtà rendendone manifeste le incongruenze, lo respinge se
la realtà è del tutto spenta dal sogno. Poiché ci sono due modi di
sognare, come ci sono due diverse utopie. C’è il sogno che fugge dalla
realtà, troppo disgustosa o troppo costrittiva, e poco si preoccupa –
se si preoccupa – di vincoli come lo spazio, il tempo, i costi. E c’è
il sogno profetico, che osserva la realtà con spietata acutezza e la
scorge più chiara dietro le apparenze.
Questo secondo sogno
non ignora il reale (è il caso dell’Unione europea) ma lo disvela
denunciandone la menzogna e l’errore. I tempi che abbiamo alle spalle
sono stati colmi del primo sogno, e assai poveri del secondo. Sono
stati colmi di sogni che in realtà erano illusioni, autoinganni.
L’Italia degli Anni Novanta è stata immersa in simile chimera – la
chimera di un Mondo Nuovo e Pulito, nato dai miasmi della Prima
Repubblica – e il più grande venditore di sogni speciosi è stato Silvio
Berlusconi, già due volte presidente del Consiglio oberato da un ben
poco pulito conflitto d’interessi. Le immagini redentrici che proponeva
erano rosee e azzurre, mimetizzate com’erano con la pubblicità
televisiva e gli spettacoli di Mediaset. L’Italia veniva descritta come
un’impresa o una squadra di calcio: relativamente facile da maneggiare,
tutta compatta dietro il leader, e governata senza opposizione perché i
consigli di amministrazione non vivono, come in democrazia, all’ombra
di un’alternanza già pronta. Nell’azzurro irreale di quel paesaggio non
si sarebbero pagate più tasse, tutti avrebbero vinto chissà quale
campionato e al tempo stesso avrebbero ottenuto servizi pubblici molto
più eccellenti che in passato: il gelato caldo era a portata di mano, e
non c’è da stupirsi se poi s’è diffuso il disgusto (perché quando il
gelato si scalda che resta del gelato?).
Sogni di questo tipo
sono proposti da chi manipola l’incanto e la seduzione. Da chi vive
nell’immaginario – sociale o politico – dimenticando quel che
Malebranche e Pascal dicono dell’immaginazione: che è fonte di follie,
e in particolare di quella follia che si coltiva nel chiuso delle
pareti domestiche (la folle du logis, la folle dell’appartamento: così
Malebranche chiama l’immaginazione, e così viene chiamata la
televisione dei nostri tempi dai saggisti Jean-Louis Missika e
Dominique Wolton). Allo stesso modo, è stato sogno la grande offensiva
di Bush contro il terrorismo, presentata come esportazione facile della
democrazia e lotta interminabile («di più generazioni») del Bene contro
il Male: un sogno naufragato in Iraq, in Afghanistan, a Gaza. Un sogno
che non ha dato i risultati che prometteva – la sicurezza – per il
semplice fatto che probabilmente era l’esatto contrario che si voleva
ottenere: quell’affannosa insicurezza e quella paura che facilitano il
comando sugli uomini.
Anche Ségolène Royal ha a suo modo
sognato: impedendo al socialismo francese di rinnovarsi veramente, la
candidata sembrava convinta che l’elettore avrebbe visto del nuovo e
del vero nell’apparizione di una donna travestita da seducente Giovanna
d’Arco. Sogni simili cominciano con l’esultanza e finiscono col
secernere prima malcontento, poi disillusione, infine cinismo. Già è
accaduto con le utopie del secolo scorso: dei sogni non era restato che
un potere fondato sulla paura. Il cinismo non supera questo tipo di
sogno ma ne è la perversione. «Facci sognare!»: dice il cinico post
utopico fantasticando la conquista d’una banca, e di fatto continua a
dimenticare che la politica ha doveri precisi, quando propone un sogno:
deve tenere la parola, deve avere il coraggio di spiegare il prezzo
delle cose, deve pensare il bene comune e non il bene di un gruppo o
una classe. La politica deve liberarsi dal sonno dogmatico che consiste
nell’agire senza rapporto con l’esperienza. Deve preoccuparsi della
solvibilità, che è la capacità di pagare il debito che si contrae.
Ma
la politica è anche proposta di sogni che valgono, che durano, che non
si limitano a fotografare la realtà dell’istante o la realtà di ieri.
Fu sogno veridico quando Martin Luther King spiegò come fosse
possibile, e necessaria perché la società non si frantumasse, una
convivenza civile fra neri e bianchi d’America. Infatti disse: «I have
a dream now», non «ho un sogno domani». Introdurre il principio di
realtà lì dove non regna che l’illusione è il modo per salvare
l’immaginazione non insidiata da follia e dunque l’orizzonte di cui
abbiamo pur sempre bisogno. L’esperienza di Martin Luther King mostra
che scetticismo e carpe diem non sono le sole soluzioni, e che
anch’essi vanno giudicati con diffidenza quando dal privato si passa
alla politica. Lo scettico disilluso fatica a divenire vero sognatore a
occhi aperti, dunque profeta che descrive i mali e propone il farmaco
per curarli. Fatica a riconoscere la capacità che a volte solo il
sognatore possiede, e che raramente è segno distintivo del cosiddetto
pragmatico: la capacità di guardare lontano, di pensare la propria
generazione e anche le prossime, di vedere soprattutto il falso e
l’illusorio che indossa le vesti della realtà stessa.
È falsa
realtà lo Stato nazione, è illusione e follia casalinga la sua piena e
assoluta sovranità. Neppure la potenza americana è completamente
sovrana, in grado di governare da sola il proprio destino e di
influenzare da sola il mondo. È invece sogno realistico il progetto di
un’Europa unita, oggi spesso descritta come utopia votata a fallire
come altre utopie. In realtà è l’unica utopia che abbia un rapporto col
vero, perché nasce non da una fuga ma da una scoperta della realtà.
Così come preparare un futuro abitabile dai nostri figli e nipoti è
l’unica utopia realistica, essendo a portata di mano. Abbandonare
questi sogni è vero cinismo, disillusione, ossia prigionia
nell’illusione di ieri.