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25 Gennaio 2005

Non c’è trippa per gattopardi

Autore: Gian Giacomo Migone
Fonte: La Stampa

«Ciò che è avvenuto in Puglia non mi ha stupito per niente. Semmai, come americanista che per nove anni ha rappresentato un collegio uninominale al Senato, mi stupisce soltanto che non sia avvenuto ben prima qualche cosa di simile. Il maggioritario può piacere o non piacere (a me piace perché consente agli elettori di decidere chi li governerà, forse sono troppo «americano»), ma ha una sua logica inesorabile: comporta la personalizzazione del voto; il dovere di rappresentare nel proprio ambito territoriale tutti i cittadini, in caso di vittoria; una nuova e diversa funzione dei partiti che non può più essere quella della prima repubblica. La conservazione della quota proporzionale ha soltanto attenuato e ritardato questa linea di tendenza. Chi si è illuso e ancora si illude di poter gestire questo mutamento in maniera gattopardesca continuando a scegliere candidati in qualche stanza più o meno remota dai cittadini elettori, non importa se di partito o di partito-azienda, è destinato a fare la fine del proverbiale apprendista stregone. Solo a suo rischio e pericolo potrebbe ignorare la pressione dell’elettorato più attivo e più avvertito che, privato del voto di preferenza, diventa sempre più insofferente di ciò che gli passa il convento senza coinvolgerlo.

Silvio Berlusconi dispone di mezzi soprattutto mediatici che gli consentono di raggiungere il popolo con un messaggio personale e diretto, rispetto a cui i singoli parlamentari sono delle pedine pressoché anonime. Il leader può ancora pensare di surrogare la partecipazione alle primarie con una schiera di attivisti retribuiti, ma per quanto tempo ancora?
Le tensioni riguardanti le liste dei candidati governatori segnalano come la febbre dell’investitura diretta vada diffondendosi nelle pieghe della Casa delle Libertà.

Il centro-sinistra, invece, se vuole vincere non può fare a meno di guardare oltre le strutture di partito per coinvolgere la parte più attiva del suo elettorato, vero antidoto allo strapotere mediatico dello schieramento avversario, destinato a rafforzarsi ulteriormente se riuscisse ad abolire la legge sulla par condicio. Non è un caso se la crisi successiva alla sconfitta del 2001 è stata superata attraverso una mobilitazione di massa che ha offerto un contributo determinante ai successivi risultati elettorali. Tuttavia, ciò non avviene gratis. Le centinaia di migliaia di partecipanti alle manifestazioni per la pace o per la difesa dello statuto dei lavoratori, come il numero sempre più ridotto di militanti che tengono duro all’interno dei partiti senza tornaconto personale, alla lunga esigono di poter partecipare alla scelta dei candidati che, in caso di vittoria, dovranno rappresentarli nelle istituzioni. È questo il significato profondo, il messaggio irreversibile, pena la sconfitta, di quanto è avvenuto nella primaria pugliese.

L’obiezione vera, che motiva le dichiarazioni in diverso modo spaventate di molti leaders (ma non di Romano Prodi, non senza vantaggi privo di partito), è molto semplice: come dice giustamente Ilvo Diamanti, le primarie indeboliscono i partiti perché nella loro attuale configurazione sono essenzialmente dei comitati elettorali del ceto politico (aggiungo io).
Ma è un male che la validità di una candidatura sia verificata da una platea più ampia? Che la gestione del potere pubblico sia collocata all’interno delle istituzioni? Che i partiti abbiano l’opportunità di ripensare il loro ruolo come sede di formulazione e di verifica dei programmi, come espressione di identità e di valori, prima che come selezionatori di una classe dirigente?