Hans Blix, svedese, è stato ministro degli Esteri del suo Paese, direttore
generale dell´Agenzia internazionale per l´energia atomica (Aiea) e, dal 2000 al
2003, direttore esecutivo della Commissione di monitoraggio, verifica e
ispezione delle Nazioni Unite per l´Iraq (Unmovic). È un testimone privilegiato
del “Nigergate” perché doveva essere lui, come direttore Unmovic, a dover bere
per primo la «bufala» dello shopping nigerino di Saddam Hussein. Blix non l´ha
bevuta e oggi dice: «I documenti italiani sullo yellowcake nigerino sono stati
la prova più spettacolare utilizzata per giustificare la guerra in Iraq. Direi
ne sono stati la chiave, soprattutto perché combinati con l´altrettanto falsa
informazione sull´acquisizione da parte dell´Iraq di tubi di alluminio per la
costruzione di centrifughe per l´arricchimento di uranio. I documenti italiani
sullo yellowcake sono stati l´informazione alla base delle celebri sedici parole
pronunciate da Bush nel discorso sullo stato dell´Unione il 28 gennaio 2003».
Nel discorso di Bush, il riferimento al Niger è attribuito a informazioni
acquisite dagli inglesi.
«Conosco questa obiezione. L´Amministrazione americana
sa, nel gennaio del 2003, che le informazioni sullo yellowcake sono false. È
consapevole del rischio che si corre nel renderle pubbliche. Così sceglie di
attribuirne l´origine agli inglesi. È un modo per coprirsi o, quantomeno, per
condividere la responsabilità di quanto si stava affermando».
Come fa a essere
certo che l´Amministrazione sapesse nel gennaio 2003 che le informazioni sul
Niger erano false?
«Mi pare ampiamente documentato che, a partire dalla fine di
febbraio 2002, l´Amministrazione americana è al corrente degli esiti della
missione dell´ex ambasciatore Wilson in Niger. Sa che Wilson non solo non ha
trovato nulla che sostenga l´ipotesi di un contratto di fornitura di uranio dal
Niger all´Iraq, ma ha addirittura trovato prove che lo escludono. Ora, io non so
se Bush fosse o meno a conoscenza degli esiti della missione di Wilson. So che
non posso dirlo perché non esistono prove certe che lo sapesse. So però che
Stephen Hadley (all´epoca dei fatti, vice della Rice, oggi Consigliere per la
sicurezza nazionale, ndr) si è assunto la responsabilità politica
dell´inserimento dell´argomento uranio nel discorso di Bush. So che qualcuno,
dentro l´Amministrazione, sapeva che cosa Wilson non aveva trovato. So, per quel
che è accaduto dopo, che all´Amministrazione non era piaciuto affatto che
Wilson, nel luglio del 2003, avesse svelato l´esistenza e gli esiti della sua
missione. Osservo in ogni caso che la cosiddetta vicenda Cia-gate (o Plame-gate)
per la cattiva fede dell´Amministrazione americana».
Lei dice che sull´uranio
nigerino gli americani si «coprono» con gli inglesi. Questo significherebbe che
gli inglesi avevano le stesse informazioni contenute nei documenti italiani.
«È
così. Gli inglesi avevano le stesse informazioni contenute nei documenti
italiani».
Gli inglesi, però, sostengono che le loro conclusioni sul Niger erano
sostenute da evidenze di intelligence diverse e acquisite altrimenti.
«Questa
affermazione degli inglesi, ad oggi, è e resta quel che è: una semplice
affermazione. Non è infatti sostenuta da alcuna evidenza che consenta di dire
“ecco le altre prove sull´uranio nigerino». Queste «altre prove» Londra non le
ha mai messe sul tavolo. Del resto, che gli inglesi disponessero delle
informazioni contenute nei documenti italiani è un fatto dimostrato dalla
semplice circostanza che non lo hanno mai negato. Semplicemente perché non lo
potevano negare».
Quando, e in quale circostanza, ha avuto notizia per la prima
volta dell´uranio nigerino?
«Ne venni informato dagli uffici dell´Aiea di Vienna
nell´autunno del 2002, anche se non rammento con precisione la data. Però,
ricordo perfettamente la mia reazione. Pensai che si trattasse di un´assoluta
sciocchezza. Sapevamo con precisione che l´Iraq disponeva di grandi riserve di
yellowcake stoccate nel corso degli anni e sapevamo soprattutto che non era in
grado di arricchirlo.
Dunque la storia nigerina non aveva alcun senso logico».
In che termini le venne comunicata la notizia?
«In termini sufficientemente
precisi. Mi venne detto che l´Aiea aveva appreso dagli americani dell´esistenza
di un contratto per la fornitura di yellowcake dal Niger all´Iraq. E mi venne
anche aggiunto che Jacques Bauté stava cercando senza successo di ottenere
questi documenti per poterli valutare».
Ricorda se nel comunicarle la notizia vi
fu un riferimento all´Italia?
«Non ci fu alcun riferimento all´Italia. Che
l´origine dei documenti fosse a Roma venne fuori soltanto nella primavera del
2003, dopo che i documenti erano stati dichiarati falsi dall´Aiea».
Si è fatto
un´idea sull´origine e le responsabilità dell´operazione di falsificazione e
disseminazione dei documenti?
«Io sto ai fatti accertati. È un fatto che i
documenti saltino fuori e vengano messi insieme a Roma. È un fatto che un
italiano li abbia disseminati. Per conto di chi? A quale fine? Con la complicità
di chi? Queste sono tutte domande che attendono ancora una risposta e su cui
vengono formulate ipotesi diverse. Ma una cosa è certa: le domande che pone
questa storia ammettono due sole possibilità».
Quali?
«Se si è trattato di una
truffa per fare qualche denaro, visto che questa storia nasce a Roma e finisce a
Washington via Londra, questo vuol dire che è stato possibile beffare alcune tra
le intelligence occidentali meglio equipaggiate del pianeta. Dunque, che ci
troviamo di fronte a servizi segreti dilettanteschi. Il che, non è una buona
notizia. Se, al contrario, non è stata una truffa, allora questo significa che
qualcuno ha agito con dolo. Ma allora questo qualcuno va scoperto, dal momento
che questa storia è costata una guerra».
Il governo e l´intelligence italiana
accusano la Francia di essere dietro la macchinazione.
Blix ride. «Non conosco i
dettagli di questa ipotesi, ma ci vedo francamente del fumo. Penso che, spesso,
i servizi di intelligence non informano, ma disinformano. E questo potrebbe
essere un caso. Una cosa è certa».
Quale?
«Qui nessuno intende fare un processo
alle intenzioni con il senno di poi. Perché quando si parla delle responsabilità
del «Nigergate» si fa riferimento a una circostanza essenziale che, non a caso,
tutti dimenticano o fingono di dimenticare. Il 7 marzo 2003, giorno in cui El
Baradei comunica che i documenti italiani sullo yellowcake sono falsi, la guerra
non è ancora cominciata. La si poteva ancora fermare. Perché nessuno lo ha
fatto? Perché i Paesi che oggi riconoscono pubblicamente la falsità di quella
«prova» non hanno pubblicamente denunciato allora quel che stava accadendo? Lo
scandalo del Nigergate – e sottolineo la parola scandalo – è proprio in questo.
È scandaloso quel che non è stato fatto all´indomani del 7 marzo. Del resto, in
quei giorni, nessuno sembrava disposto neppure a mettere in dubbio che l´Iraq
disponeva di armi di distruzione di massa. E chi lo faceva ne pagava il prezzo».
Torniamo a quello che lei definisce lo «scandalo del Nigergate». Cosa le
suggerisce il fatto che la storia non abbia ancora trovato oggi quelle risposte
cui lei prima accennava?
«Mi suggerisce due considerazioni. La prima: come sarà
possibile d´ora in avanti credere agli Stati Uniti quando grideranno «al lupo,
al lupo»? Come sarà possibile prendere per buone informazioni di una
intelligence che ha dato quel tipo di prova nella vicenda irachena? Faccio un
esempio. Si dice oggi che in un computer sequestrato dall´intelligence Usa
esiste la prova del programma nucleare iraniano a fini non civili. Bene, io non
so se queste informazioni siano attendibili o meno. Ma mi chiedo: come faccio a
fidarmi?».
E la seconda considerazione?
«Il «Nigergate» dimostra la
politicizzazione delle intelligence. Ci racconta che, alla vigilia della guerra,
i servizi di informazione occidentali hanno riferito ai loro governi nazionali
quel che quei governi volevano sentirsi dire. E questo ha avuto effetti
disastrosi, sul prima e sul dopo. Perché se sbagli una diagnosi puoi stare certo
che anche la terapia sarà sballata. Ed è esattamente quello che è successo in
Iraq».