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25 Maggio 2006

Manovra, perché sì Ferdinando Targetti

Fonte: l'Unità

In queste ore sta partendo la due diligence, e cioè la revisione dei conti
della finanza pubblica italiana. Tuttavia ci si fa poche illusioni che le
conclusioni saranno migliori di quelle a cui sono giunti osservatori e
centri studi italiani e stranieri di un rapporto deficit/Pil del 4,5% sia
per il 2006, sia anche per il 2007. Questo dato, insieme ad un debito
pubblico crescente rispetto al Pil, mette in allarme le autorità di
Bruxelles. Oggi il Commissario Almunia ha un incontro con Prodi.

Oggi il Commissario Almunia ha un incontro con Prodi. Il Commissario europeo
si è già espresso e ha consigliato di non dare per perso il 2006 e di usare
il mezzo anno che ci sta davanti per iniziare a porre rimedio allo
squilibrio della finanza pubblica che il centrodestra ci ha lasciato in
eredità. Questo significa porre la questione della manovra correttiva: se
farle e come farla.

C’è chi suggerisce a Prodi, come il premio nobel Edward Prescott (Corriere
della Sera del 22.05), di disinteressarsi dell’effetto immediato di un
peggioramento del disavanzo e di ridurre le tasse come misura cruciale,
insieme ad altre misure di liberalizzazione dei mercati, di rilancio
dell’economia. Questa negligenza benevola verso i conti pubblici è condivisa
anche da chi, su sponde politiche opposte, si oppone alla politica dei due
tempi (che significa prima riequilibrio dei conti e poi sviluppo) e
suggerisce di intraprendere da subito misure di aumento della spesa sociale.
Io credo che entrambe le proposizioni siano sbagliate.

Se una manovra di riduzione del disavanzo va fatta conviene farla in due
circostanze che si presentano ora: quando l’economia è in presenza di una
ripresa estera, perché in tal modo gli effetti sul reddito sono parzialmente
compensati da una crescita delle esportazioni e quando si è all’inizio della
legislatura perché il Paese capisce che la manovra restrittiva è stata
causata dall’eredità negativa del governo precedente.

Ieri Visco ha fatto cenno ad una manovra fiscale e si sono scatenati
malumori trasversali. Trovo la cosa bizzarra. L’Unione ha quasi perso le
elezioni discutendo in campagna elettorale di imposte, ora sarebbe due volte
suicida se, formato il governo, non volesse toccarle. (In realtà l’errore
non fu di parlare di imposte, ma di dare segnali contraddittori e
quantificazioni avventate in tema di imposte, soprattutto di successione,
che sono una piccola parte della politica tributaria).

Io credo che la strategia da presentare a Bruxelles dovrebbe prevedere
cinque mosse. Primo: una manovra correttiva da attuarsi subito dopo i
risultati della due diligence, in coincidenza con il Dpef presentata a
Bruxelles da persone della credibilità di Prodi, Padoa Schioppa e Visco.
Secondo: una manovra da subito sulle imposte (in coincidenza con l’attuale
mini-ripresa europea) che dovrebbe consistere nella omogeneizzazione delle
aliquote sulle rendite finanziarie, una riduzione del cuneo fiscale
(selettiva e di meno dei 5 punti di cui si discusse in campagna elettorale)
ed un ritocco all’insù dell’Iva (non presente nel programma, ma giustificata
dalla gravità dei conti) che non gravando sul costo del lavoro rende la
riduzione del costo del lavoro simile ad una svalutazione. Terzo: una
riduzione-ricomposizione (a favore di ammortizzatori sociali) della spesa
pubblica da iniziare con la Finanziaria di quest’anno (bisognerà trovare in
questo governo un novello Giarda). Quarto: il rafforzamento del contrasto
all’evasione (per fortuna che nel governo c’è Visco!!). Quinto: una terapia
radicale di demonopolizzazioni, strada maestra per una ripresa della
crescita attraverso misure a costo finanziario zero (anche se ad elevato
costo politico).

Una manovra di questo tipo non solo è necessaria all’economia italiana, ma è
anche utile alla politica estera del nostro paese. Credo infatti che l’asse
Roma-Berlino debba essere la via maestra della nostra politica europea: a
metà strada tra la «dottrina Churchill» di Blair (a fianco all’America in
ogni caso) e la «dottrina De Gaulle» di Chirac (in antitesi all’America in
ogni caso). Ma per cementare quest’asse anche la nostra politica economica
deve fare la sua parte e seguire l’esempio di quella tedesca. In Germania la
signora Merkel (sebbene avvantaggiata da una Grande Coalizione che in Italia
non è proponibile a causa dell’estremismo del centrodestra fintanto che
Berlusconi ne è leader) ha intrapreso non solo un rafforzamento della
struttura produttiva, ma anche una correzione delle finanze pubbliche che
non ha disdegnato la manovra delle entrate.