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19 Settembre 2005

Malessere sociale e gerarchie ecclesiastiche. Un clero contro sè stesso

Autore: Barbara Spinelli
Fonte: La Stampa

L’accusa che una parte delle gerarchie ecclesiastiche ha lanciato nei
giorni scorsi a Romano Prodi, a proposito delle unioni di fatto, ha un tono che
forse non stupirà lo storico della Chiesa ma che qui e ora, nel tempo e nella
realtà che viviamo, può turbare il cittadino, credente o non credente. La forza
di Gesù e della sua Chiesa è proprio quella di suscitare turbamento, di mettere
in allarme, ma non è questa la via stretta imboccata da chi nel clero s’indigna.
Il turbamento suscitato dagli attacchi a Prodi non fa chiarezza per mezzo dello
scandalo, non induce a pensare più profondamente quel che sta accadendo nelle
relazioni tra esseri umani, ma crea piuttosto obnubilazione, ottenebrazione
delle menti. È ottenebrato quel che parte del clero pensa delle coppie di fatto,
eterosessuali o omosessuali (come scrive Sturzo, è sempre meglio parlare di
clero conservatore che di Chiesa). È oscura la risposta che esso dà al malessere
di una società che vive una crisi vastissima della famiglia e che sente il
bisogno di regolare non solo nuove forme di unioni, ma nuove forme di
amicizia-convivenza.

Osservatore Romano e Conferenza episcopale non entrano in merito a tutto
questo, aggirano il pensare difficile, e tutta la propria energia sembrano
concentrarla su calcoli di politica immediata e sulla personalizzazione
dell’assalto a Prodi. Di che cosa è colpevole infatti la guida del
centrosinistra? Di «cercar voti sfasciando la famiglia», «rastrellandoli su
tutto il territorio». Su questo Prodi va giudicato, e magari condannato; sulla
base di calcoli che queste gerarchie ecclesiastiche mostrano di saper fare con
previdenza, astuzia, aguzzo senso delle convenienze, non diversamente dai
partiti che rivaleggiano per il comando della pòlis.

Questa parte del clero che si riduce a partito, che calcola il guadagno
elettorale di una proposta invece di studiare la proposta stessa e la realtà
umana che l’ha fatta scaturire, assomiglia poco a un clero forte, sicuro del
proprio credo. Il suo argomentare non è diverso da quello che appare sui
notiziari Internet, e come essi dipende da sondaggi d’opinione, da giochi di
potere che si fanno e si disfano in poche ore. Nei giorni scorsi sul sito della
Stampa si poteva rispondere a un instant poll sul Pacs appena proposto da Prodi
– gli porterà voti? non glieli porterà? – senza che il lettore potesse giudicare
l’idea in sé. Questo è lo spirito dei tempi, lo Zeitgeist di una politica che
s’esaurisce in brevi tornaconti partitici. Che regni in un giornale è già un
peccato. Spiace se dovesse influenzare anche la Chiesa: se invece di pensare il
presente dell’uomo quest’ultima ragionasse su vantaggi elettorali, se invece di
riaccendersi si spegnesse, sulla scia di altre luci che si spengono. Cosa
importa infatti sapere cosa guadagnerà Prodi? La sola cosa che conti è sapere se
la proposta sia buona, se allevii sofferenze senza scardinare le famiglie, se
regoli drammi che non riguardano solo le coppie e che altrimenti si
surriscalderebbero fino a imporre soluzioni estreme. Se la proposta è buona va
meditata come tale, a prescindere dal successo negli instant poll o alle
urne.

L’immersione nello Zeitgeist ha già spinto parte della curia a intervenire
più volte, ultimamente, su questioni che riguardano la politica e anche
l’economia e la finanza. È intervenuta in Germania nel ’98-’99, imponendo ai
vescovi tedeschi di ritirarsi dai consultori sull’aborto (in questo caso fu
determinante il cardinale Ratzinger). È intervenuta in Spagna, opponendosi al
matrimonio fra omosessuali (ma né Aznar né i vescovi spagnoli erano contrari
alla legalizzazione delle unioni di fatto). È intervenuta in Italia, prima nel
referendum sulla procreazione assistita, poi sulle unioni di fatto. E sempre ha
agito senza fronteggiare i venti forti delle questioni etiche spinose ma
piuttosto aggirandole, ignorandole.

L’aborto è una questione spinosa, essendo un’uccisione del non nato che
l’umanità, in assenza di legge, pratica con violenze ancor più brutali. La
tutela della famiglia è una questione spinosa, in società demograficamente
agonizzanti che vedono l’istituto familiare non solo minacciato ma già oggi
eroso, alle prese con la fine della famiglia allargata e con la solitudine
generalizzata di individui in cerca di nuove regole di convivenza amorosa o
amicistica. È qui che la Chiesa fatica a reagire, permettendo che alcuni suoi
esponenti antepongano il calcolo e la scaltrezza alla missione di lungo periodo,
la forza dell’autorità precettistica alla carità, la politica alla fede. È come
se San Paolo non avesse detto quel che ha detto, sulla circoncisione: come se
avesse detto che la circoncisione è quella della carne, non quella del cuore e
dello spirito; come se non avesse annunciato che «Qui non c’è più Greco o
Giudeo, circoncisione o incirconcisione, barbaro o Scita, schiavo o libero, ma
Cristo è tutto in tutti».

Intervenendo nella politica e contestandone l’autonomia, il clero
conservatore viene contaminato dal modo di calcolare che è oggi della politica,
e ineluttabilmente anche dal suo brancolare nel buio, dal suo esser distante
dalle realtà vissute. Non si batte apertamente contro la revisione della legge
sulla procreazione assistita, ma conta astutamente sul premio che si potrà
ricavare dai cittadini indifferenti per ottenere l’annullamento d’un referendum
per mancanza del quorum. Non si preoccupa di studiare i documenti della Caritas
in Germania, che indicano come i 270 consultori abbiano indotto un
impressionante numero di donne a rinunciare all’aborto, ma si tira fuori e si
de-responsabilizza. E anche sul Pacs, non vede che la crisi della famiglia è già
qui, tra noi, indipendentemente da Pacs o matrimoni gay. Che l’assenza di
diritti-doveri nelle unioni di fatto o nelle convivenze è all’origine di
ingiustizie tali che l’amore tra esseri umani ne è offeso (un esempio a mio
parere significativo: il malato in agonia negli ospedali può esser assistito –
dunque amato – solo da parenti di sangue. Qui si tratta del diritto a poter
esercitare un dovere: è questo il «capriccio gay» di cui parla il presidente del
Senato?).

La politica finisce così col divenire più forte dell’amore, dell’amicizia,
della carità, minacciando le fondamenta della Chiesa. Don Carrón, successore di
Don Giussani alla guida di Comunione e Liberazione, è stato chiaro sui rischi
corsi dalla Chiesa spagnola nello scontro con lo Stato: «È evidente che qualcosa
non ha funzionato nella trasmissione della fede (…). Non è bastata né poteva
bastare la riduzione della fede a etica, a un discorso corretto e pulito, una
sottolineatura a volte eccessivamente moralistica del cristianesimo. Non è che
uno debba essere senza macchia, anche Pietro e Paolo erano uomini con i loro
limiti» (Corriere della Sera, 24 agosto). Lo stesso Ratzinger, prima d’esser
Papa, ha detto ai funerali di Don Giussani: «Il cristianesimo non è un sistema
intellettuale, un pacchetto di dogmi, un moralismo, ma è un incontro, una storia
di amore, un avvenimento».

Probabilmente quest’interferenza dei vertici vaticani nella vita dello
Stato avviene perché, in Italia, non esiste più un partito cattolico forte, in
grado d’ascoltare la Chiesa ma anche di resisterle. Quando i cattolici son
divisi, la voce del clero conservatore si fa più pressante ma non
necessariamente più autorevole, scrive con finezza Guido Compagna su Il Sole-24
Ore. De Gasperi e Sturzo resistettero alle pressioni vaticane. Don Sturzo cercò
di salvaguardare due passioni a volte contrastanti: la fedeltà alla Chiesa e
l’amore della verità. Difese l’aconfessionalità del partito cattolico, ribadì
che «la Chiesa non esprime un ordine materiale o politico, ma solo un ordine
religioso», scrisse che «non è nella missione della Chiesa prendere iniziative
dirette nel campo della economia e della politica, nel senso di trasformarsi
essa in un’attività terrena sia pure a scopo etico-religioso» (Luigi Sturzo,
Lettere non spedite, il Mulino 1996).

Vista in quest’ottica, e considerata la frequenza con cui si ripete,
l’offensiva contro Prodi diventa meno sorprendente. Prodi è un cattolico che
crede e vuole esser percepito come adulto: il che vuol dire – in lingua politica
– laico alla maniera di De Gasperi. Come Rosmini, avversa la religione di Stato
e vorrebbe che gli spiriti veramente religiosi «liberassero» la Chiesa dalla
«servitù dei beni ecclesiastici» e del potere temporale. Agendo in tal modo
infastidisce il clero conservatore, anche perché la propria fede non la mette al
servizio d’un partito cattolico che occupi l’intero centro della politica, ma di
un’unione tra forze del centro sinistra in un quadro bipolare. Proprio in quanto
cattolico viene insomma disapprovato, perché il cattolico dissidente non è solo
voce contraria, ma anche eretica. E perché i politici cattolici oggi sono
eretici se adattano lo spirito di De Gasperi e Rosmini alle esigenze del
bipolarismo e di alternanze chiare.

Per la Chiesa è un bene che personalità così esistano ancora. Gli
interventi di parte del clero sono un segno di debolezza, e la forza per la
Chiesa consiste nel liberarsi dai privilegi che vengono dallo Stato, nel
ritrovare l’energia spirituale che scaturisce dalla separazione dalla politica
temporale. Altrimenti, a forza di chiedere uno Stato etico e di temere il metodo
laico di governare una società fatta di diversi, sarà lo Stato a intervenire
sulla Chiesa. È il disastro che la Chiesa visse nel 1790, con la costituzione
civile del clero: quando la rivoluzione francese tentò di affrancare i cattolici
dal papato, e obbligò i sacerdoti a giurare fedeltà a uno Stato sacralizzato da
cui ormai dipendevano interamente.