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22 Febbraio 2005

L’ultima notte da cronista a Bagdad

Autore: Renato Caprile
Fonte: la Repubblica

Parto perché mi hanno detto che restare è diventato troppo pericoloso. Non che qui le cose siano mai state molto tranquille ma adesso i giornalisti italiani sembrano veramente nel mirino. L´ho capito l´altra notte nel deserto dell´hotel Palestine quando una voce che mi pareva amica, uno dei tanti informatori contattati in mesi di corrispondenze, mi ha detto al telefono di stare attento: «Le informazioni dei vostri servizi segreti sono serie. Potrebbero rapirti, potrebbero anche venirti a prendere nella tua stanza». Solo allora ho realizzato di trovarmi da solo al quindicesimo piano di un grattacielo che un tempo era stato l´hotel dei giornalisti e che adesso è desolatamente vuoto.
Nel palazzo, dislocati in piani diversi, solo un paio di contractors di chissà quale nazione e qualche soldato americano barricato in stanza con armi e munizioni. A peggiorare le cose ci si è messo pure un misterioso sciopero del personale che ha svuotato del tutto l´albergo. Niente camerieri, niente pulizie, facce nuove e poco simpatiche nella hall. Confesso una piccola debolezza: ho lasciato aperta la porta del bagno incastrando le maniglie con quella d´ingresso. Se qualcuno fosse entrato con la forza almeno il rumore mi avrebbe svegliato. Non è servito. Perché non ho dormito.
E che le cose siano veramente serie me ne sono reso conto ieri pomeriggio al momento di andar via. Tre carabinieri del Tuscania sono venuti a prendermi in assetto di guerra. Nella hall il signor Ahmid, freddo e impassibile, mi ha chiesto di pagare il supplemento per il ritardo nel lasciare la stanza. Sapeva delle minacce ma non ha fatto una piega. Noi stranieri siamo tutti uguali per lui. È gentile ma non ci ama, certo non si preoccupa per noi. Davanti alla jeep blindata il mio interprete Andraus, cinquant´anni, cristiano, tanti mesi passati assieme, mi aspettava con in mano una foto di gruppo: «Tienila, è la mia famiglia. Ti vogliono tutti molto bene». Poi la corsa, si fa per dire, nel folle traffico di Bagdad. I parà con il mitra in pugno fuori dai finestrini. Un piccolo brivido ad ogni fermata, ad ogni auto che ci tagliava la strada. E il trasferimento all´ambasciata che ricordavo dai tempi della guerra. Anche qui si capisce subito come sono cambiate le cose: cavalli di frisia, sacchetti di sabbia e un labirinto di sbarramenti in cemento per arrivare al portone blindato. Dentro c´è un bunker all´italiana. I parà giocano a ping pong e cucinano la pizza. Fuori ci vanno il meno possibile ma sempre più degli americani che continuano a dire che i nostri sono pazzi e che rischiano troppo. Ho una grande amarezza dentro. So bene che fare l´inviato di guerra in queste condizioni era assai limitato. Ma non credete a quelli che dicono che l´Iraq si può seguire anche meglio standone fuori. Pur stando molto spesso chiusi in albergo, avevamo contatti continui con collaboratori, altri colleghi, si potevano organizzare uscite mirate e prudenti per incontrare personaggi da sentire. Insomma l´informazione su questo paese sarà certamente più limitata quando tutti noi ce ne saremo andati. E poi penso che c´è un´altra cosa più triste in tutta questa faccenda: che quando anch´io prenderò quell´aereo resterà una sola giornalista italiana in Iraq. Giuliana Sgrena.