2222
11 Luglio 2004

L’Ulivo ipnotizzato

Autore: Barbara Spinelli
Fonte: La Stampa

Uno degli spettacoli più impressionanti di queste giornate di crisi politica dentro la maggioranza è l’atteggiamento dell’opposizione, e in particolare dell’opposizione che vien chiamata riformista. Sono giorni che vediamo sfilare davanti ai nostri occhi i dirigenti della lista Prodi, e tutti sembrano come paralizzati davanti al disastro cui sta andando incontro il progetto politico e personale di Silvio Berlusconi. È una paralisi singolare, perché s’accompagna a un gesticolare sconnesso e a un fiume di parole e frasi allusive quasi tutte inafferrabili, oltre che inaffidabili. È accaduto con un fax che Romano Prodi ha inviato giovedì ai capi della propria coalizione per indicare qual era la linea da lui suggerita sulla missione in Iraq. I capi hanno letto il fax, hanno ignorato i suggerimenti, e alla fine Prodi ha fatto sapere che il fax non era poi un fax da prendere sul serio.

Il guaio è che l’intera opposizione appare come quel fax: c’è e non c’è, è al tempo stesso reale e fittizia, e sembra far di tutto per non esser presa sul serio. Non solo trascura di dire i programmi per il futuro. Non si sforza neppure di darsi un metro certo per giudicare il presente, e per dire la sua su quel che nella sostanza divide oggi la maggioranza: la natura più o meno radicale della mutazione economica che s’impone oggi all’Italia e all’Europa. È un’opposizione a interim, esattamente come Berlusconi che non è vero ministro dell’Economia ma qualcosa di più provvisorio, che dissimula un vuoto fingendo di riempirlo.

Lo spettacolo è impressionante perché l’opposizione si comporta come se avesse completamente dimenticato, d’un tratto, che gli italiani stanno guardandola, ascoltandola, giudicandola. Non è agli italiani che essa parla, per dire quel che farà se tornerà a governare e quel che intende fare come opposizione. I suoi dirigenti parlano l’uno con l’altro di faccende casalinghe – dove mettere questa poltrona, dove piazzare l’attaccapanni, a chi riservare la stanza del trono, a chi la camera degli ospiti – come se fuori casa ci fosse l’immobilità del nulla, e non un mondo che cambia, che sta a guardarli, e che si aspetta dai politici decisioni chiare e giudizi che non mutano ogni mese.

Cechov fa succedere questo, nel suo Giardino dei ciliegi. I protagonisti pensano nostalgicamente un mondo che sta sparendo e si comportano come se questo loro chiuso patrimonio botanico esistesse ancora, finché una simbolica corda si spezza, quando il sipario s’abbassa alla fine dell’ultima scena, e il pubblico capisce che il giardino è raso al suolo. In Italia si parla molto e con incongruo disprezzo di teatro della politica. Ma anche questo è falso, perché nel vero teatro gli attori non dimenticano mai di esser sotto lo sguardo del pubblico: sguardo esigente, da cui dipende la loro carriera. Qui siamo davanti a attori dilettanti, che litigano fra loro senza sapere di trovarsi, per l’appunto, su un palcoscenico e sotto lo sguardo di tutti.

Tanto son dilettanti che si contraddicono nella più grave delle maniere: non sono trasparenti sulle cose che gli italiani vorrebbero sapere, e sono invece quasi impudicamente trasparenti su questioni che dovrebbero esser discusse nelle riunioni riservate. Il pubblico non capisce né le parole di Parisi né quelle di Rutelli che polemizza con Parisi e che preso da personale impazienza critica la lista sovra-partitica per la quale si era battuto in passato. Ancor meno capisce poi Marini o De Mita, che sognano la rinascita, al centro, della vecchia Democrazia Cristiana. E neppure Prodi capiscono più, perché non è più all’Italia che egli parla ma ai propri alleati e in particolare alle ali estreme della sinistra che sta rincorrendo. C’è chi nella lista di centrosinistra vuole una federazione, chi propone cosiddette cooperazioni rafforzate, chi prende in prestito formule unitarie sindacali: termini del tutto incomprensibili al normale cittadino. C’è da chiedersi se l’opposizione sappia, la confusione che sta introducendo nelle parole e nelle menti. Se sappia di essere – di fronte al terremoto che investe Berlusconi – simile alla moglie di Lot, impietrita come statua di sale davanti a Sodoma che brucia.

Come la moglie di Lot, il centrosinistra guarda quel che sta accadendo ed è tutta sgomenta. Si era preparata per un Berlusconi avversario forte, egemone nella sua alleanza, ed ecco invece che lo scenario cambia in maniera sconfortante. Nell’aria c’è questa nostalgia di vecchia Democrazia Cristiana, presente negli ex Dc di destra come di sinistra, proprio mentre le sfide cui si è chiamati a rispondere si fanno più difficili. Tutto sembrava semplice, quando Berlusconi era il cemento che teneva assieme l’opposizione e l’obiettivo era di accordarsi almeno su una cosa: la conquista del potere alle prossime elezioni, e la sostituzione di una maggioranza numerica con un’altra. Ma ecco che il premier rischia di cadere o comunque logorarsi prima ancora del voto, a causa di un regolamento dei conti che avviene dentro la coalizione di centrodestra e non fra destra e sinistra. Ecco che occorre uscire dalla semplificazione berlusconiana della politica, che urge riscoprire vecchie astuzie e complicazioni del comportamento politico e tuttavia non restare abbacinati da quest’arte tutta democristiana di sempre più complicare, e nulla decidere né risolvere: arte in cui gli ex Dc eccellono ma che li ha pur sempre condotti, a dispetto di personaggi come De Gasperi, a rovinare se stessi e la Prima Repubblica.

I nuovi compiti del centrosinistra sono quelli di sempre, solo che stavolta davvero non sono eludibili: si tratta di pensare la qualità e non solo la quantità delle maggioranze cui si aspira, si tratta di meditare sullo spazio lungo del governare e non solo sullo spazio brevissimo d’una campagna elettorale e d’una vittoria alle urne. Si tratta per il candidato-premier di mostrare costanza, tenuta riformatrice, capacità di parlare agli italiani e persuadere gli alleati, senza perpetuamente rincorrere le sinistre estreme con le quali si potrà vincere un’elezione, ma non governare le mutazioni economiche che abbiamo di fronte. Per le sinistre estreme – le uniche a possedere una coerenza e una vera tenacia politica – si tratta di decidere se vogliono di nuovo, come nel 2001, aprire la strada a una vittoria della destra.

La crisi-trasformazione del berlusconismo costringe il centro sinistra a dire quello che pensa oggi sullo scontro ideologico dentro la maggioranza, e come intende comportarsi domani quando tornerà al governo. Le due cose non sono sconnesse: conviene avere idee chiare su quel che accade oggi, e sulla maniera in cui si sta seppellendo l’idea stessa di una radicale mutazione dello Stato e dell’economia italiana, per meglio difendersi – domani quando la gestione di tale mutazione spetterà alla sinistra – dall’accusa di tradire uno Stato sociale che va comunque riformato. Bisogna che il centrosinistra dica sin da ora, nel mezzo della battaglia dentro la maggioranza: come si comporterebbe sull’Iraq, come riformerebbe le pensioni, che tagli farebbe alla spesa pubblica e alle tasse, come utilizzerebbe la legge Biagi sul lavoro (è la legge Biagi che dà qualche protezione giuridica al precariato, contrariamente a quel che sostengono le sinistre e i sindacati). Un governo di sinistra non potrà fare a meno di affrontare queste stesse questioni, che tutta l’Europa sta prendendo su di sé e che il successore di Berlusconi rischia di dover accollarsi ancor più severamente, proprio perché Berlusconi e Tremonti non sono riusciti a fare la rivoluzione fiscale che avevano avventatamente promesso agli elettori.

Ma è anche il bipolarismo che bisognerà ripensare e rifondare. Esso ha senso se esistono programmi chiari che si confrontano. Se le alleanze sono strette intorno a progetti e a un’idea del futuro, e non sono semplici coalizioni elettorali tra personalità e partiti gelosi gli uni degli altri. L’alleanza su cui Berlusconi ha edificato la Casa delle Libertà ha rivelato di essere solo elettorale, destinata a sbriciolarsi alla prima difficoltà del partito egemone. Null’altro teneva insieme i suoi inquilini: né vincoli progettuali, né lealtà, né comune volontà riformatrice. Questo bipolarismo malato è stato dato agli italiani che ne avevano chiesto uno sano, ed è il bipolarismo che il centrosinistra ha fin qui interiorizzato e imitato.

L’alleanza di centrosinistra non sembra essere più solida di quella di Berlusconi. Anche a sinistra, i partiti sono tenuti assieme non da idee e programmi, ma esclusivamente dal vincolo che è la nostra legge elettorale maggioritaria. È questo bipolarismo perverso che essi rischiano di perpetuare, se insistono a farsi stregare da Berlusconi e dalla sua convinzione più profonda: la convinzione che conquistare il potere sia tutto, e che esercitarlo con sapienza sia una questione secondaria, di cui il leader carismatico non è mai veramente responsabile.