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4 Luglio 2006

L’Onu: «Afghanistan, la sinistra italiana sbaglia»

Autore: Cecilia Zecchinelli
Fonte: Corriere della Sera

Si era schierato senza il minimo dubbio contro la guerra in Iraq, Tom Königs. Oggi è altrettanto certo che in Afghanistan si debba rimanere.
«Tutta la sinistra in Italia deve capirlo: ritirarsi oggi da questo Paese vorrebbe dire tradirlo, riconsegnarlo ai Talebani e a un’ideologia che calpesta ogni diritto umano. Non ha senso protestare contro i voli segreti della Cia e i mancati diritti delle donne musulmane e poi andarsene dall’Afghanistan. L’ho detto anche al vostro sottosegretario Vernetti qui a Kabul, e mi sono offerto di venirlo a spiegare di persona alla vostra Commissione Esteri».

Rappresentante speciale di Kofi Annan e capo della missione Onu in Afghanistan da febbraio, tedesco iscritto da sempre ai Verdi e già Commissario per i diritti umani con Joschka Fischer dopo un lungo periodo con l’Onu (Guatemala, Kosovo) e nella politica tedesca con competenze umanitarie e ambientali, Königs non parla spesso con la stampa. Ma quando decide di farlo è esplicito.

La situazione è sempre peggio in Afghanistan, lo dice ogni giorno Karzai, lo ripetono Bush e Blair. Si sta trasformando in un nuovo Iraq, a cui molti lo accomunano in Italia?
«Ancora a inizio anno si pensava che l’insurrezione qui fosse dovuta a qualche decina di combattenti, facili da sconfiggere. Tutto falso. Anche Karzai ha preso atto dell’importanza della rivolta – 600 morti in tre settimane – e del sostegno massiccio che arriva dall’esterno, dei molti seguaci nel Paese dove l’insurrezione s’intreccia al business della droga. Ma l’Iraq non c’entra niente, fino dall’inizio i due casi erano completamente diversi. Tre anni fa mi sono schierato totalmente con il mio partito, il mio governo e l’Onu contro la guerra in Iraq. Oggi dico che se gli stranieri se ne andassero da qui i più frustrati e delusi sarebbero gli afghani, che si sentirebbero ancora una volta traditi dalla comunità internazionale».

L’Afghanistan è un Paese complesso, con tensioni interne antiche. Crede che la responsabilità della comunità internazionale sia così grande?
«Sì, alla fine dell’occupazione sovietica, tutte le promesse dei Paesi che avevano sostenuto i mujahidin finirono in niente. L’Afghanistan fu abbandonato a se stesso e scoppiò la guerra civile, poi arrivarono i Talebani, che oggi rischiano di tornare se non daremo una risposta compatta, militare, politica e di sviluppo. Una risposta che dev’essere comune e internazionale, al di là delle difficoltà dei singoli Paesi, perché qui c’è un mandato Onu preciso e la missione è internazionale, il nemico e l’obiettivo sono comuni».

In Italia il nuovo governo è arrivato a un compromesso: no ai sei caccia Amx già promessi da Berlusconi e richiesti dalla Nato per «ricognizioni» al Sud dove si combatte, no all’aumento di fondi e di uomini. Permanenza nel Paese con maggior impegno civile. Cosa dice?
«Dico che le forze militari afghane non sono ancora autosufficienti, c’è ancora bisogno di truppe straniere e non solo al Sud dove l’allargamento della missione Nato su mandato Onu sarà tra l’altro positivo, a mio parere. Ma dico anche che se per coerenza politica con la propria storia un partito o un governo non vogliono accrescere o mantenere immutato il loro impegno militare, questi possono anzi devono mandare più aiuti e più civili.
C’è posto per tutti, anzi c’è bisogno di tutti. L’Italia ha già fatto moltissimo, ad esempio, nella riforma della giustizia a cui collabora anche l’Onu. L’importante è non lasciare solo il Paese, dove la povertà è tra l’altro in crescita».

Qualcuno in Italia esige un’exit strategy precisa. Quanto dovranno rimanere in Afghanistan le truppe straniere: dieci anni come sostiene il generale Del Vecchio?
«Gli unici che a livello informale mi han chiesto di definire un’exit strategy, ed è comprensibile, sono stati gli iraniani, ma non per la missione Nato, che accettano, bensì per quella militare a guida Usa. In quanto ai tempi del ritiro, dieci anni mi sembrano molti, ma anche in base all’esperienza in Kosovo posso dire che fin quando non ci sarà un sistema di sicurezza regionale che garantisca stabilità, la comunità internazionale non potrà andarsene».

Stabilità in tutta la regione? Ci vorrà tantissimo tempo.
«Probabile. Ma l’Afghanistan è già ora un problema regionale e non nazionale: quello che succede non accadrebbe se non ci fosse di mezzo il Pakistan e i gruppi fondamentalisti in Medio Oriente. L’Asia Centrale è poi una zona instabile, se Al Qaeda vincesse in Afghanistan altri Paesi sarebbero a rischio di contagio. Anche per questo non possiamo abbandonare l’Afghanistan: non è un problema locale. Difendere il mondo da Al Qaeda è un obiettivo di tutti. E tutti dobbiamo restare».