LONDRA – «No, francamente l’attacco dell’Economist a Berlusconi non mi ha meravigliato molto. E non dovrebbe meravigliare neanche voi italiani. Senza andare troppo lontano, senza scomodare i padroni del mercato globale, si sa che anche la vostra stessa classe dirigente, i grandi capitalisti del vostro paese, diffidano profondamente del leader del Polo».
Eric Hobsbawm assiste dalla sua casa londinese con un certo distacco a questo conflitto tra destra liberale anglosassone e destra populista italiana. Da marxista, non è esattamente un fan dell’Economist. Ma da storico ne conosce e ne ha studiato l’importanza nella costruzione di un pensiero liberale e di un’egemonia culturale della borghesia.
«Io me ne sono occupato professionalmente scrivendo dell’Ottocento. Ma devo dire che allora questa rivista non aveva l’importanza che ha adesso. E’ negli ultimi trent’anni che l’Economist ha assunto un notevole rilievo intellettuale, perché è diventato il rappresentante più informato e il propagandista più intelligente del neoliberismo. Insomma, è il tipo di giornale che davvero non ha nessun pregiudizio contro l’idea che un uomo d’affari possa dirigere un paese. Se se la prende con Berlusconi è perché lui è un caso un po’ speciale tra gli uomini d’affari, al confine con qualcos’altro».
Ma lei ricorda in tempi recenti una presa di posizione così decisa da parte dell’Economist nei confronti di un leader politico?
«No. Se si esclude, ovviamente, quello che scrivevano dei regimi comunisti dell’Est».
E perché, secondo lei, la classe dirigente internazionale diffida così tanto di Berlusconi?
«Per due ragioni. La prima è che, come ho detto, lui è un caso speciale. Dietro la sua ascesa di imprenditore si intravedono dubbi gravi sulla correttezza della sua condotta, più adatta all’epoca craxiana che a quella del «free market»; e sul suo futuro da premier si proietta l’ombra di un conflitto di interessi di proporzioni tali da essere intollerabili anche per la destra liberale. La seconda ragione è Bossi. Il grande sospetto di questa comunità internazionale è che un governo che dipenda dal sostegno della Lega possa modificare radicalmente la collocazione dell’Italia in Europa. In giro c’è un’idea abbastanza consolidata che Bossi sia come Haider. Io, fra l’altro, non penso che sia così, e ritengo che il populismo di destra di Bossi sia qualcosa di diverso e di originale. Ma, evidentemente, non più rassicurante».
Dietro la polemica dell’Economist ci può essere un pregiudizio inglese nei confronti dell’Italia e degli italiani?
«Un giudizio, più che un pregiudizio. Su Berlusconi e Bossi mi risulta che ci sia un consenso generale di tutta la classe politica inglese, conservatori compresi. E di tutti gli inglesi che si occupano professionalmente dell’Italia, della sua politica e della sua storia, senza distinzioni di destra e sinistra. Diciamo che il liberalismo inglese, moderato e democratico, fatica a capire come sia possibile che questa destra possa avere tanto successo in un paese moderno come l’Italia. E se ne allarma».
L’uscita dell’Economist avrà effetti sul comportamento della cosiddetta «classe globale» e dei mercati nei confronti dell’Italia?
«Può darsi. Più che di classe globale parlerei però degli Stati Uniti. L’Economist è diventato un giornale essenzialmente americano. Vende metà delle sue copie nel Nord America, ed è molto ascoltato dal potere politico ed economico in quel paese. Guarda con interesse alla presidenza Bush. Insomma, è la quintessenza di quella che si definisce l’opinione anglosassone».
Secondo lei, dimenticando per un attimo le sue ovvie preferenze politiche per la sinistra, la democrazia italiana è davvero a rischio se Berlusconi e Bossi vanno al governo?
«Non lo so. E’ davvero difficile giudicare quando non si vive in un paese. Tutto sommato, io penso che peggio di come è andata negli ultimi anni del pentapartito, nell’era craxiana, non possa andare. Allora si era formato un blocco sociale stabile e forte intorno a un sistema di corruzione generalizzata, che rappresentava un pericolo reale per la democrazia. Stavolta, mi pare, questo blocco sociale non c’è. Anzi, c’è molta volatilità e instabilità. Per me il rischio più immediato è che Berlusconi, proprio per costruire una stabilità politica una volta al governo, faccia importanti concessioni a Bossi. Questo metterebbe in discussione l’unità del paese e dunque creerebbe grandi difficoltà all’Italia in Europa».
E’ ottimista o pessimista sul futuro dell’Italia?
«Mi pare che la sinistra italiana sia alquanto depressa, e piuttosto pessimista. Ma, sa come si dice: il pessimista non è altro che l’ottimista informato».