IN tutte e tre le religioni monoteiste c’è un angelo – l’angelo del Signore – che agguanta il braccio di Abramo nell’attimo in cui questi s’appresta a sgozzare il proprio figlio. Abramo si volta verso l’angelo con sguardo sgomento, quasi disturbato. Non era stato proprio Dio, a ordinargli l’olocausto No, replica l’angelo: Dio aveva voluto metterlo alla prova, vedere sin dove poteva giungere la sua fede. Ma l’essere umano non va sacrificato con riti d’olocausto, e questa è la vera e ultima parola del Signore. Al posto del figlio Abramo sacrificherà un ariete, che l’angelo fa apparire accanto all’altare, le corna impigliate in un cespuglio. Dio sa fin dove può arrivare la follia delle fede nell’uomo, e costruisce l’Alleanza su una fede che pur essendo pronta a tutto pone a se stessa limiti austeri. Questi limiti Dio li indica, e sono la stoffa della civiltà in cui i tre monoteismi credono. Non così nei terroristi che hanno mostrato al mondo, in questi giorni, di cosa son capaci quando son persuasi d’essere ispirati da Dio: son capaci di minacciare la decapitazione di Simona Torretta e Simona Pari, sui siti Internet, dopo aver mandato in onda la decollazione di due ostaggi americani, Eugene Armstrong e Jack Hensley, e aver trasmesso l’immagine dell’inglese Kenneth Bigley, già vestito con l’abito dell’olocausto, che implora singhiozzando l’aiuto di Blair. Son capaci di rimettere l’essere umano al posto dell’ariete inviato dall’Angelo, e dunque di correggere Dio stesso: occupando il suo spazio sacro, parlando in sua vece. Il colmo della blasfemia è raggiunto dalla scritta che fa da sfondo all’assassinio: «Monoteismo e gihàd». Il Giudizio Universale è strappato al cielo, trascinato in terra. Il terrorista si comporta alla stregua d’un messia profano, che ergendosi a divinità rifà il mondo dopo averlo disfatto. In tutti e tre i monoteismi il grande demiurgo dell’Apocalisse è Dio, non l’uomo: quando usurpa il trono di Dio e pretende di determinare al suo posto la fine dei tempi, l’uomo non è ispirato bensì posseduto: non è posseduto da Dio (Dio non possiede) ma da Satana. Da qui bisogna partire, per provare a capire quel che accade e ci accade. Da quella lama d’una sciabola che decapita, d’un coltello che sgozza, e dall’importanza che ha per il terrorista-demiurgo far vedere l’immagine del rito appena compiuto o minacciato, istantaneamente e in tutto il pianeta. La lama del coltello che recide vite non è per lui un mezzo, ma il fine stesso dell’agire: il terrore indicibile che suscita la decapitazione o la prospettiva d’una decapitazione è tale che l’evento diventa subito mondiale, diffuso da Internet e da canali televisivi satellitari, a cominciare dai satellitari arabi. L’uso della lama è al servizio d’un nuovo terrorismo che ha già sgozzato o decapitato uomini e donne, in Algeria tra il ’92 e il 2000, ma che ora s’espande, e opera a partire da situazioni locali con l’intento d’acquistare immediata visibilità globale. È un terrorismo-www: world wide web. Nel momento in cui agisce worldwide – vasto quant’è vasto il mondo – il terrorismo ha bisogno di ricorrere a una camera da presa, per ritrarre i propri tribunali pseudodivini e le proprie esecuzioni. La camera da presa assurge anzi a protagonista, è lì per trasformare la paura che incute universalmente l’immagine in vantaggio bellico. Anche per questo esibisce maniacalmente il dettaglio. Indugia sull’ostaggio abbigliato per il rito e accovacciato per l’esecuzione, si ferma sul boia che lo afferra alla collottola e lo rovescia da un lato, ostenta il tempo che ci vuole per recidere il collo.Nel maggio scorso ho deciso di vedere su Internet l’esecuzione di Nicholas Berg – il filmato non ritraeva tagli fulminei da ghigliottina ma il lento segare del coltello, e le grida dell’ucciso erano di animale macellato a rilento – e le volte successive non sono riuscita. Ma altri guardano e tornano a guardare ripetutamente, e in tal modo non solo la condanna ma anche la decapitazione diventano una banalità, una moneta che circola e s’usa. Una banalità che si vede regolarmente sul web, e che perciò stesso si presenta come gesto quasi normale, fattibile da tutti, copiabile: un fatto che non fuoriesce da epoche arcaiche ma è un fatto “dei nostri tempi”. Nelle religioni ci sono riti cruciali che avvengono una sola volta, perché l’umanità capisca. Applicato dai terroristi, il rito ha bisogno, per far proseliti e seminare paura nelle piazze musulmane e in Occidente, di tramutarsi in film di un serial killing mondializzato (scrivo in inglese la parola, solo perché è in inglese che il terrorista fabbrica il suo linguaggio e il suo curriculum). Certo, è terrorismo mediatico. L’abuso dei mezzi di comunicazione serve a far paura, a intimidire, ad accrescere l’incubo dell’attesa, e non per ultimo a reclutare. Forse, se non assistessimo a quei film e all’annuncio di quei film, avremmo meno paura, saremmo meno intimiditi. Non si dorme, dopo averli visti o solo immaginati. Ma non possiamo scordare che la camera da presa mondializzata è parte costitutiva dell’offensiva terrorista, è la finalità del suo assassinio in serie, e come tale va vista per meglio fronteggiarla. Forse è la cosa più terribile da dire, da pensare: l’ostaggio che sta per essere ucciso con la lama vede con i propri occhi quella camera che lo ritrae negli ultimi cruenti minuti della propria esistenza. Gli americani Berg, Hensley, Armstrong, i dodici camerieri e lavapiatti nepalesi sgozzati in agosto: tutti hanno visto i voyeur che li filmavano, come le donne trucidate nel film di Michael Powell del 1960, Peeping Tom (L’occhio che uccide). C’era un occhio in più che li ammazzava una seconda volta, ed era l’occhio della camera fissa. La vittima si vede defraudata non solo della vita, ma di quel che è più privato e segreto: la propria morte. Queste immagini possiamo non farle vedere, e il più delle volte non è decente mostrarle: chi non accetta di farsi doppiamente derubare (della vita, della morte) s’oppone – come la famiglia Baldoni – alle foto sanguinose. Ma di per sé, la diffusione d’immagini nei media occidentali non è colpevole: fa vedere la guerra asimmetrica del terrorismo, e come viene fatta. Sono i terroristi a essere i demiurghi del male, ed è il cameraman che s’associa alle loro sparute bande. Noi possiamo anche staccare la spina, come suggerito su questo giornale da Giuseppe Zaccaria in uno slancio di pietas. Ma dobbiamo sapere che milioni di altri uomini vedranno il film girato dal cameraman-assassino, perché da tempo ormai l’Occidente non ha più il monopolio del sistema-www. World wide web e televisioni satellitari sono ormai multipolari, e non sono gli occidentali a essere oggi i media più trasparenti. Ormai gli arabi sanno (nei loro paesi e nelle nostre periferie) che Al Jazeera e Al Arabiya offrono più immagini delle tv occidentali, e che le due emittenti non sono terroriste: possono esser corrive verso i fanatici, ma la libertà che offrono è ben più ampia delle tv arabe di stato. Anche per questo sono popolari. Non è neppure sicuro che esse siano malefiche. Neppure Al Jazeera, neppure Al Arabiya sono all’origine dei misfatti, ma sono il medium che li rende pubblici. E i video che trasmettono possono accendere nel telespettatore musulmano più incolto la voglia di coltello («la sua anima voleva sangue, non rapina: egli era assetato della gioia del coltello!» annuncia il messianico Zarathustra in Nietzsche) ma possono anche svegliare nell’Islam, e già svegliano, un enorme senso di vergogna. È ancora presto per dire che nella guerra contro il terrorismo abbiamo già perso, come pensa oggi una maggioranza degli inglesi. Forse abbiamo perduto una battaglia, in una guerra che continua ma che non potrà né proseguire nei modi odierni, né imboccare la via d’un mal preparato ritiro dall’Iraq. Il presidente Ciampi ha invitato tutti a fare il punto, con sconsolatezza ma anche determinazione: «Le attuali iniziative non bastano a isolare e debellare il terrorismo. Occorrono visioni e proposte nuove: in Iraq e per il superamento del conflitto israeliano-palestinese».Non si vuol qui incitare a capire il crimine contro l’umanità di cui si macchiano i terroristi islamici. Ma così come bisogna guardare in faccia l’uso che essi fanno dei riti e della camera cinematografica, bisogna anche guardare (noi giornalisti, politici, spettatori) quel che è scritto nei loro messaggi. Anche le nostre televisioni devono farsi più trasparenti, inventive: dobbiamo fotografare il loro orrore, e anche il bambino che solo Al Jazeera riprende, schiantato dalle bombe Usa a Falluja. Dobbiamo saper vedere la Cecenia annientata dall’esercito russo.Sennò non sapremo cosa rispondere, a quel che dice Bin Laden nell’ultimatum all’Europa del 15 aprile: «In quale religione i vostri morti sono innocenti e i nostri non valgono nulla, ed il vostro sangue è sangue e il nostro acqua». Non dimentichiamo che il grido di Osama echeggia quello dell’ebreo Shylock, nel Mercante di Venezia di Shakespeare: «Un ebreo non ha occhi non ha mani, un ebreo, e membra, corpo, sensi, sentimenti, passioni non si nutre dello stesso cibo, non è ferito dalle stesse armi, soggetto alle stesse malattie, guarito dalle stesse medicine, scaldato e gelato dalla stessa estate e inverno di un cristiano… Se ci pungete non sanguiniamo se ci fate il solletico, non ridiamo se ci avvelenate, non moriamo e se ci fate torto, non ci vendicheremo».