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3 Giugno 2005

Lo spettro del No si aggira in Europa

Autore: Mario Pirani
Fonte: La Repubblica

E se la ratifica della Costituzione europea fosse stata sottoposta a referendum popolare anche in Italia siamo proprio sicuri che l´esito sarebbe stato diverso da quelli francese e olandese Sia lecita una risposta almeno dubitativa soprattutto da parte di chi giudica questi eventi come un fenomeno che travalica le frontiere e mette in gioco comuni linee di tendenza, trasversali e profonde, espresse in tutti i Paesi da forze sociali e politiche molto ampie che addebitano all´Ue la causa dei loro malanni e l´origine delle loro paure. Se così è occorre, in primo luogo, una diagnosi impietosa dei motivi che hanno fatto lievitare in tanti Paesi, compresi i cosiddetti "fondatori", la sindrome ostile all´Unione. Occorre spiegare a noi stessi – europeisti da sempre – le ragioni dei No (non solo dove si sono espressi), tanto più se ipotizziamo che alla base vi sia quel che in termici medici si chiama un effetto-paradosso, per cui la terapia invece di guarire produce effetti perversi. Un equivoco che non neutralizza il colpo inferto ma, se mai, lo rende più grave. Non cambia molto, infatti, se sullo straccio osso che ha aizzato il toro referendario si fosse letto più correttamente

globalizzazione e non Europa, essendo, anzi l´Unione e l´euro l´unico scudo

che il Vecchio continente s´è inventato per non soccombere nella competizione mondiale.

Qui sta, infatti, il paradosso: nella confusione tra uno strumento indispensabile per competere e gli effetti durissimi e paurosi di una competizione alla quale ci si vorrebbe sottrarre, rinserrandosi dietro la fragile porta di casa. Il No è stato lo sbattere di quella porta. Che questo gesto lo abbiano compiuto milioni di persone non lo tramuta per questo in una risposta giusta e razionale. La maggioranza non ha sempre ragione. Ma neppure ragione hanno avuto i pavidi e improvvidi restauratori dell´edificio europeo che ambivano ampliarlo per ricevere nuovi inquilini e coronare il tutto con un pesante timpano costituzionale, senza preventivamente consolidare le strutture portanti.

Un´accusa che, peraltro, non va rivolta alla tanto bistrattata burocrazia brussellese, vestale di un fuoco acceso in tempi assai più nobili, ma ai vacui detentori d´un potere sgretolato e inutile chiamati a decidere (e più sovente a non decidere) nei vertici e nei consigli europei d´ogni ordine e grado.

Per capire il punto a cui siamo è forse utile rifarsi alla cronaca storica

dell´integrazione (consiglio a chi vuole approfondirne i nessi dalle origini ai giorni nostri, la lettura della "Storia dell´integrazione europea" di Bino Olivi e Roberto Santaniello, appena pubblicata dal Mulino).

Essa si divide in due grandi periodizzazioni. La prima segnata dal trionfo epocale della pacificazione permanente tra le nazioni dell´Europa occidentale, in primo luogo Francia e Germania, dallo sviluppo crescente delle loro economie, grazie alla graduale unificazione dei mercati, dalla dimostrata superiorità sociale, culturale e politica del loro sistema democratico nei confronti del comunismo dell´Est, dalla capacità, grazie alla parallela Alleanza atlantica, di garantire il "contenimento" pacifico del contrapposto blocco sovietico.

Con il 1989, la caduta del muro di Berlino e poco dopo dell´Urss, si apre un

secondo capitolo anche per l´integrazione europea. La Germania si unifica

mentre inizia il processo di adesione, non ancora del tutto concluso, che

porterà nell´Unione le nascenti democrazie dell´Europa orientale, con un  

livello economico e sociale molto inferiore. Contemporaneamente esplode la

globalizzazione: scompare la divisione tra mercato capitalistico e mercato  

socialista. Anche certe forme di protezionismo del Terzo mondo vengono meno.

L´informatizzazione prorompente, Internet, la libera circolazione dei capitali e di nuovi strumenti finanziari, le emigrazioni di massa, l´informazione in tempo reale travalicano su nuove e vecchie frontiere.Centinaia di milioni di persone, fino a ieri condannate a una marginalità di sussistenza, entrano nell´universo della produzione anche in settori avanzati, in tutte le parti del mondo. Giganteggia l´Asia. In questo contesto di mutazione rapidissima l´Europa appare in sofferenza, la sua crescita rallenta ed è ormai quasi ferma, non si sente capace di reggere alla sfida, le sue certezze vengono meno, teme per il futuro. I perché sono esterni e interni al suo perimetro, peraltro reso incerto dall´allargamento (alla Turchia all´Ucraina a chi altro ancora). Una prima risposta – che riguarda l´esterno – sta paradossalmente nel benessere europeo: è il più alto e diffuso del mondo, il Welfare nei suoi vari aspetti è percepito come un diritto di cittadinanza, i tempi di lavoro sono più bassi che altrove, le pensioni più alte e anche a volte in più verde età, le esportazioni da

sempre non conoscono frontiere vuoi per l´alta tecnologia (Germania, però

solo nei settori tradizionali), vuoi per la flessibilità e le periodiche svalutazioni (Italia), vuoi per un ex impero a disposizione (Francia). Come reggere alla concorrenza mondiale senza mettere in discussione tutto questo? Come riuscire a conservare almeno l´essenza d´un sistema sociale tanto radicato senza pregiudicare il consenso democratico che lo rende possibile? Come competere con cinesi e indiani, americani del Nord e del Sud Coreani e filippini? Come, soprattutto, risolvere la contraddizione strutturale tra vantaggi dei consumatori per i più bassi prezzi dei prodotti importati dal mondo esterno e la paura dei lavoratori che vedono, proprio da ciò, messo in pericolo il posto, la stabilità, il salario?

Non basta. Anche all´interno dell´Unione lo squilibrio introdotto dall´allargamento ha scatenato contraddizioni destabilizzanti. I nuovi aderenti riceveranno aiuti da quelli più ricchi ma questi sono destinati, inoltre, a subire una concorrenza crescente: il basso costo del lavoro polacco, romeno o ungherese spingerà moltissimi imprenditori a delocalizzare le loro industrie all´Est, mentre, a rendere ancor più appetibili queste scelte, intervengono riforme fiscali vantaggiosissime (la flat tax, tassa minima ad aliquota unica tra il 12 e il 25) che penalizzano ancor più le aziende dell´Ovest. Su tutto ciò è piombata da ultimo la famosa direttiva Bolkstein (che ha anche lo svantaggio di far rima con Frankstein) sulla liberalizzazione dei servizi, che ha alimentato la favola dell´"idraulico polacco", causa sembra di almeno il 4 di No al referendum francese. Di che si tratta Per capirlo è necessario ricordare che l´integrazione europea s´è basata sulla progressiva introduzione di quattro libertà fondamentali: la libera circolazione delle persone, considerati cittadini di un unico Stato (è questa libertà che permise negli anni ´50 e ´60 a centinaia di migliaia di lavoratori italiani di stabilirsi con eguali diritti in Germania, Benelux, Francia ecc.); la libera circolazione delle merci che dette un Mercato comune alle produzioni nazionali; la libera circolazione dei capitali che coincise con l´introduzione dell´euro, e ora, buon ultima e ancora in discussione, la libera circolazione dei servizi. Su di essa sono state diffuse non poche fandonie. In primo luogo va ricordato che oggi i servizi coprono i due terzi dell´economia europea, mentre nell´interscambio dell´Unione rappresentano appena il 20. Quando nel 2000 al vertice di Lisbona venne definita la strategia che avrebbe dovuto rilanciare lo sviluppo, il libero scambio dei servizi venne indicato come motore essenziale della ritrovata efficienza.

Molto schematicamente esso dovrebbe articolarsi in due modi differenti: se

si tratta d´una prestazione occasionale (il famoso idraulico polacco ma anche un avvocato o un medico) in un paese diverso dal proprio, per esercitarla basta rispettare i regolamenti del paese d´origine, se, invece, a esempio, una agenzia ungherese di servizi vuole aprire una filiale a Roma, essa ne avrà pieno diritto ma dovrà rispettare le regole del paese d´accoglienza (minimi tariffari, diritti sindacali, ecc.). Il dumping sociale sembra escluso, almeno per chi non opera in nero ma questo non è bastato a dissipare nuovi timori. In sostanza anche sul piano intereuropeo si manifesta la contraddizione tra fornitura di servizi in concorrenza (quindi a minor prezzo e maggiore efficienza) a vantaggio dei consumatori e difesa dei demani professionali protetti e a impiego più o meno assicurato.

Questo quadro d´assieme dovrebbe spiegare la sindrome suicidaria antieuropeista, le nostalgie per le vecchie monete svalutabili, la voglia

d´inflazione a spese d´un bilancio pubblico "rinazionalizzato", libero da

vincoli di equilibrio e utilizzabile per una spesa pubblica "facile".

Quando si predica l´antiliberismo, un´ideologia di pronto uso per destre e sinistre, è questo che si vuole. Per contro, se è vero che la creazione d´uno spazio europeo forte con una propria moneta e una propria politica è l´unica risposta alla globalizzazione, bisogna anche dire che essa è stata perseguita negli ultimi anni nel modo peggiore. Soprattutto la si è accompagnata con una ideologia di segno opposto, poco credibile ed irritante.

Si sono eretti a feticci intoccabili slogan vacui. Il politically correct ha avuto la meglio sulla Ragione. Così a chi insisteva per rafforzare prima l´Unione esistente, Costituzione compresa, e passare, poi, con gradualità e buon senso ad un progressivo allargamento si rispondeva che "la democrazia non può attendere", come se su Varsavia e Budapest incombessero ancora i carri armati di Stalin. Così chi avanzava dubbi sull´adesione turca rischiava di passare per un supporter di Al Qaeda. Infine viene bollata come revival nazionalistico qualsiasi ipotesi di misure protezionistiche europee (anche solo per scoraggiare lo sfruttamento del lavoro minorile) che andrebbero viceversa giudicate pragmaticamente come strumenti temporanei con vantaggi nel medio termine e svantaggi nel lungo, da modulare con attenzione (del resto tutta la politica agricola della Cee non s´è sviluppata sotto il suo segno, nel bene e nel male). Così, con l´accompagnamento retorico di buone intenzioni e belle parole, ci si è infilati in una delle peggiori crisi della recente storia europea e non si sa come uscirne.