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28 Giugno 2005

L’Italia tra regole europee e Blair

Autore: Mario Monti
Fonte: Corriere della Sera

Da qualche tempo, con frequenza quasi quotidiana, il vicepresidente del Consiglio, on. Giulio Tremonti, esprime sulla stampa e alla televisione valutazioni lapidarie sull’Antitrust europeo, che ritiene responsabile di una parte rilevante dei mali dell’Europa.

Il «no» francese al trattato costituzionale «è un voto contro chi ha fatto l’Antitrust europeo» (Corriere della Sera, 31 maggio). Con l’Antitrust «l’Europa va verso una costruzione
integralistica sterilizzata del modello sublime del mercato perfetto» (Agenzia giornalistica Italia, 6 maggio).

«Questa Europa in cinque anni ha distrutto l’economia con l’Antitrust e la lotta agli aiuti di Stato» (La Stampa, 16 giugno). «Distrutto l’economia» … «cinque anni». Chi è stato responsabile, proprio negli ultimi cinque anni, dell’Antitrust europeo sente il cappio stringersi al collo.

Tuttavia non vorrei replicare a queste affermazioni. Non perché sia (già) soffocato, ma perché la politica europea della concorrenza (che in quei cinque anni è forse diventata più efficace, ma in una linea di continuità, che oggi prosegue) è stata oggetto in Europa e nel mondo di dibattiti approfonditi, a volte aspri, ma di solito abbastanza seri.

Riprendo il tema dell’on. Tremonti solo perché in quelle affermazioni vedo affiorare — ma spero sinceramente di sbagliarmi — tratti di una visione culturale e di politica economica che mi preoccupa, perché potrebbe soffocare ulteriormente non una singola persona, ma l’economia italiana.

Nei dibattiti sulla politica europea della concorrenza, come è noto, è diffusa l’opinione — certo con diversi accenti e con divergenze su specifiche questioni — che nel corso degli anni essa abbia contribuito a ridurre privilegi e rendite, abbia stimolato le imprese europee a diventare più competitive e i pubblici poteri a prestare maggiore attenzione alle ragioni dell’efficienza, abbia impedito anche alle più grandi multinazionali di violare le regole della concorrenza a danno dei consumatori e delle imprese europee.

Il tutto avviene entro un quadro politico- normativo definito dagli Stati membri, dal quale l’Italia non ha mai dissentito e al quale, durante la Presidenza italiana, l’attuale governo ha dato un contributo attivo.

Può accadere che, nel suo compito di enforcement, la Commissione prenda decisioni sbagliate. Ogni decisione è soggetta al controllo della Corte di Giustizia. Che la politica della concorrenza, per quanto efficace, non basti a dare slancio all’economia europea, è ovvio.

Sulle altre politiche necessarie a questo scopo, non credo che l’on. Tremonti e io abbiamo opinioni molto diverse. Per parte mia, ho sempre ritenuto necessari a livello europeo sia
un’impostazione di finanza pubblica magari più rigorosa sulla spesa pubblica corrente ma più aperta sulla spesa per investimenti (pur nella consapevolezza delle difficoltà di applicazione) sia un’adeguata politica industriale.

Una politica industriale europea esige una diversa struttura del bilancio comunitario, con un ridimensionamento della spesa per l’agricoltura. Tale politica non è incompatibile con una seria politica per il mercato unico e per la concorrenza, ma anzi la richiede.

In particolare, il controllo delle concentrazioni non è di ostacolo alla nascita e allo sviluppo di imprese europee grandi e grandissime, in grado di affermarsi nella competizione globale (ad esempio EADS, che tra l’altro produce gli Airbus; Air France- KLM; o ancora il numero uno nella siderurgia Arcelor, nate in questi anni da fusioni autorizzate dalla Commissione).

Gli aiuti di Stato, a loro volta, non sono proibiti. Sono disciplinati affinché non distorcano troppo il mercato unico e si indirizzino soprattutto a conseguire ciò che il mercato da solo non può fare: è il caso, ad esempio, degli aiuti alla ricerca e all’innovazione.

Un minore peso della regolamentazione sulle imprese è anch’esso una componente essenziale. E’ peraltro più facile denunciare nei dibattiti televisivi questa o quella norma e, magari, ridicolizzarla (alcune si prestano), che procedere a una profonda semplificazione.

Per riuscirci, occorre un maggiore impegno da parte della Commissione e di ciascun governo nazionale, tutti coautori – non dimentichiamolo – di ogni direttiva europea. Per parte sua, la politica della concorrenza aiuta: via via che un mercato viene liberalizzato, a esso si applicano i principi generali della concorrenza anziché le ingombranti regolamentazioni settoriali.

Sulla politica commerciale verso i Paesi terzi, in questo momento si confrontano in Europa visioni diverse. Non entro ora in questo tema. Vorrei però sottolineare un punto. Anche chi auspica una Europa meno aperta, più protezionistica verso l’esterno, dovrebbe considerare importante – e non un fastidioso optional voluto da burocrati «dementi » – che l’Europa disponga al suo interno di un grande mercato unico senza distorsioni alla concorrenza.

Come sanno bene gli imprenditori, questa ampia base «domestica » favorisce le economie di scala e obbliga a ricercare l’efficienza, due condizioni essenziali per affermarsi nell’aspra concorrenza mondiale.

Perché è preoccupante la demonizzazione dell’Antitrust europeo, fatta da un leader politico del peso, e della capacità di comunicazione, dell’on. Tremonti? Se l’obiettivo fosse quello di attaccare «questa» Europa, o chi in quei famosi «cinque anni » ha presieduto la Commissione europea, o chi in quel periodo, come commissario alla concorrenza, ha «distrutto l’economia europea», poco male.

Ciò che mi preoccupa veramente sono due altre cose. La prima è l’impatto, in termini di diseducazione di massa, sull’opinione pubblica di un Paese che già non è tradizionalmente molto predisposto a comprendere il valore e le esigenze di una moderna economia di mercato.

La seconda è una preoccupazione di politica economica. Se la personalità più autorevole e influente del governo dell’economia italiana ha, e manifesta, questa visione sul ruolo della concorrenza, dell’antitrust, degli aiuti di Stato, come possiamo sperare che l’Italia trovi la convinzione, la forza per superare le resistenze corporative, per aprire i mercati, per creare opportunità agli esclusi ridimensionando il potere degli inclusi?

Da dove trarrà la forza, l’impulso, la motivazione, le necessarie risorse l’Antitrust italiano, per il suo difficile compito, se fa parte di una rete di autorità, guidata dalla Commissione, che ha «distrutto l’economia europea»?

Se questa è la posizione del governo – e se, nell’opposizione, stenta a emergere una linea chiara, che sia condivisa da tutti, a favore di un’economia di mercato con una politica della concorrenza incisiva – non si può essere ottimisti sulla possibilità nei prossimi anni di riforme strutturali che, unite a una migliore politica economica europea, siano capaci di riavviare l’economia italiana.

Oggi si usa, anche in Italia, riferirsi a Tony Blair. Sarà bene tenere presente che una rigorosa politica antitrust e di controllo degli aiuti di Stato è una componente centrale della politica economica britannica e della visione britannica per l’Europa.