9 Febbraio 2006
Liberali immaginari, integralisti del mercato
Autore: Dario Fertilio
Fonte: Corriere della Sera
Italiani, liberali immaginari. Guido Rossi, nel suo nuovo saggio, mette in discussione il loro dogma per eccellenza e li chiama «integralisti del mercato». O anche peggio. «Da noi esiste un’intransigenza – afferma – un fanatismo unico al mondo».
Infatti «non ci si rende conto che il mercato ogni tanto fallisce, e gli errori devono essere corretti. Ma chi lo dice viene subito attaccato, come se fosse un infedele.
Non si vuole riflettere sul fatto che il mercato esiste perché nel 1890 gli Stati Uniti hanno approvato la legge antitrust, o perché in seguito c’è stato il New Deal». Qui Guido Rossi completa l’affondo: «La verità è che da noi ci sono troppi economisti digiuni di diritto. E così si fanno leggi non adatte a correggere i fallimenti del mercato. Un esempio? L’ultima, quella sul risparmio».
Non è un libro che segua la corrente, Il gioco delle regole pubblicato da Adelphi. Spazia dall’economia alla filosofia, sfiora la politica e si diverte a evocare alcuni capolavori letterari.
Sul tavolo dello studio milanese di via Sant’Andrea, quello da cui il professor Guido Rossi segue i movimenti del mondo finanziario internazionale, ci sono I fratelli Karamazov di Dostoevskij, Il Mercante di Venezia di Shakespeare, Moby Dick di Melville.
E non manca neppure Alice nel paese delle meraviglie . Insomma, il padre della legge antitrust, professore di filosofia del diritto, ha deciso di chiamare a raccolta un po’ di celebri eroi letterari per suffragare una sua tesi non convenzionale.
In sintesi, questa: il nuovo capitalismo sta facendo a pezzi i concetti tradizionali del diritto. Anziché accettare le regole del gioco, pretende di inventare esso stesso un “gioco delle regole”, senza risponderne naturalmente ad altri che a se stesso. Pronto, appena gli riesca comodo, a cambiare il tipo di gioco passando ad altro.
Facendo arrabbiare i cultori del liberalismo classico, Rossi definisce «contrattualismo» questa tendenza moderna secondo la quale chi vive in un sistema capitalistico può contrattare liberamente senza alcun intervento del legislatore, o del giudice.
È il contratto ad avere forza di legge tra le parti e a porsi come unica base di tutela dei diritti dei singoli, tanto che «al di fuori del contratto nulla esiste». Va da sé che una simile prospettiva di deregolamentazione selvaggia, in cui ognuno è abbandonato a se stesso, non piace affatto all’autore.
Che infatti, se la sua analisi si fermasse qui, raccoglierebbe applausi a scena aperta soltanto dalla sinistra radicale, nemica del mercato e della globalizzazione. Invece questo Gioco delle regole ha la capacità di spiazzare tutti.
Scorrendone le pagine si scopre che le conclusioni sono l’opposto di quel che ci si potrebbe aspettare: questa è una difesa del mercato e della globalizzazione, a patto che l’uno e l’altra siano governati secondo nuovi criteri giuridici.
Il tutto, si badi, nell’interesse dello stesso capitalismo: che altrimenti rischia d’essere travolto da un’ondata di leggi sempre più farraginose e restrittive, con lo scopo di limitarne l’aggressività pur dimostrandosi sempre incapaci di fare giustizia, regolarmente in ritardo sugli ultimi sviluppi, proprio come Achille che nel celebre paradosso non riusciva mai a raggiungere la sua tartaruga.
E così si spiegano le polemiche sul libro e sul suo autore, visto di volta in volta come la lunga mano finanziaria della sinistra o al contrario il difensore di un’idea “pura” di capitalismo.
Mentre lui, Guido Rossi, si propone soltanto di salvare il mercato da se stesso, e contemporaneamente liberare il diritto dalle secche in cui oggi si trova.
Una tesi immediatamente strattonata a destra e sinistra. Se Liberazione lo chiama «gran borghese» nemico della «dittatura dell’economia», Il Foglio ribatte che no, Guido Rossi è schierato dalla parte giusta, quella del conservatorismo illuminato.
Ma lui si limita a sorridere divertito. «Gli errori, anche quelli del mercato, si devono correggere attraverso le regole». Non che il mercato nasca per legge, naturalmente: «è un fatto spontaneo che però deve essere governato. Il caso della Cina, pur così diverso, in fondo lo dimostra. Là si è voluto imporre il mercato dall’alto, finendo però con il porlo sotto un rigido controllo politico».
Magari usando l’economia come una pistola puntata contro l’Occidente? «Non potrei dirlo ma, se fosse vero, sarebbe una dimostrazione ulteriore del principio».
Il tipo di controllo auspicato da Guido Rossi è esclusivamente giuridico, tuttavia la sua tesi è stata subito interpretata a sinistra come un colpo alla «dittatura economica» del capitalismo… «Ma io non l’accetto. Faccio mie le parole di Walter Rathenau, grande giurista che contribuì a risolvere i problemi economici della Germania nel primo dopoguerra: l’economia è il nostro destino. E il mercato, per me, rimane essenziale».
Allora ha avuto ragione Il Foglio nel difenderla… «Ha esagerato, proprio come Liberazione , ma anche detto qualcosa di vero. Il guaio è che anziché utilizzare i miei argomenti, l’uno e l’altro giornale hanno messo in campo le loro tesi».
Fatto sta che gli argomenti di Guido Rossi, anziché favorire questo o quello, aprono nuovi interrogativi. Se è sbagliato che il capitalismo crei le sue regole, anche i legislatori sono fuori strada quando intervengono a casaccio, senza rifarsi a principi generali.
O, peggio ancora, allorché mettono in campo la morale, i famosi codici etici tanto di moda. «Dimenticano che la morale è un valore soggettivo, differente dal diritto. Certi comportamenti devono essere colpiti, ma la morale non c’entra, altrimenti si rischia di finire in uno Stato etico, come quello nazionalsocialista.
Insomma, il diritto non può rimandare, quando gli fa comodo, a un ordinamento che gli è completamente estraneo».
Si rende conto di sfidare il senso comune, Guido Rossi. La politica, ad esempio, che da anni sembra campo di battaglia per moralisti, lui la vede diversamente: «E’ separata dall’etica, che riguarda i singoli individui. Non si può certo mettere in prigione un politico perché è immorale».
È il cuore del ragionamento di Rossi: è necessario – a suo giudizio – rifondare il diritto, ricorrendo a un nuovo contratto sociale.
Non quello à la carte del capitalismo ostile alle regole, ma quello che si basa sulla grande tradizione giuridica classica, che parte addirittura da Lucrezio, e poi viene rifondato da Rousseau.
Qualcosa che superi la distinzione fra diritto naturale e positivo rifacendosi – sostiene ancora – ai diritti umani. «Qui bisogna rifondare gli ordinamenti, ci vuole un nuovo contratto in cui tutti si riconoscano».
Proprio tutti, come in una bella utopia? «No, nessuna utopia. Il concetto dei diritti umani ormai si allarga a quelli di seconda e terza generazione, all’ambiente, al mercato, alla salute.
La Corte europea dei diritti umani e la Costituzione europea stanno facendo uscire i diritti dalla genericità.
Persino in America, dove la Costituzione è al centro di tutto e l’idea di un contratto sociale universale è lontana, la sentenza sul celebre “caso Roper” ha stabilito che la condanna a morte per il crimine commesso da un minorenne non era ammissibile, proprio a causa della censura internazionale che avrebbe comportato. Un passo in avanti esaltante, una vera rivoluzione».
Resta da capire che ci fanno sulla scrivania del professore il Dostoevskij dei Fratelli Karamazov , con l’angoscioso processo per omicidio che vi è raccontato. O il cupo Shakespeare del Mercante di Venezia , con la sentenza ai danni dell’ebreo Shylock, condannato a ritagliarsi una libbra di carne umana senza versarne il sangue.
O il Billy Budd di Melville, dove il giovane marinaio protagonista viene condannato non per la colpa commessa, ma a causa della paura di un ammutinamento.
O, parodia suprema, l’avventura di Alice nel paese delle carte da gioco, in cui il Re e la Regina di Cuori chiedono che il processo incominci dalla sentenza.
Semplice la risposta: «Il giudizio non deve mai procedere da giudizi astratti», avverte Rossi. «Vale soltanto se è radicato nella realtà, sangue del nostro sangue. E la grande letteratura aiuta a capirlo. Altrimenti, tutto è pericolosamente simile a un inganno».
Come si autodefinirà, dopo questo saggio irriverente e provocatorio, Guido Rossi? Per la sinistra radicale, rimane un gran borghese avversario del capitalismo. Per la destra, un gran conservatore amico del mercato. Per il presidente del Consiglio… «Un, comunista», scherza Rossi. E per se stesso? «Se fossi americano non avrei dubbi: mi definirei un liberal».