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28 Giugno 2007

L’Homo Novus

Autore: Barbara Spinelli
Fonte: La Stampa

Walter Veltroni è riuscito in un’impresa difficile, ieri al Lingotto. Candidandosi alla guida del Partito democratico, è riuscito ad apparire come homo novus e al tempo stesso come uomo che non segue le mode, che non lusinga chi è attratto dall’antipolitica, che non si compiace nella denigrazione di chi governa. Homo novus lo è senz’altro: da anni si tiene lontano da apparati, da correnti. Il suo mal d’Africa è stato espressione di questo prudente interiore distanziarsi. In questo somiglia molto ai dirigenti che hanno conquistato ultimamente il favore popolare, in Europa.

A uomini nuovi come Sarkozy e Angela Merkel, Zapatero e Gordon Brown che proprio ieri ha sostituito Blair in Inghilterra. A differenza di alcuni di questi personaggi, tuttavia, Veltroni non si è presentato come politico che vitupera i predecessori, che edifica la popolarità sui frantumi della famiglia cui appartiene. Non tradisce la maggioranza che sta governando, come fece Sarkozy con Chirac: non ha ucciso nessun padre, nessun fratello. Ha espresso solidarietà nei confronti dello scabrosissimo cammino di Prodi, cui ha riconosciuto il primo felice innovamento che è stato l’Ulivo. 

È stato molto esplicito, quando ha detto che primo compito del Partito democratico sarà il sostegno «deciso e coerente» del governo. Coniugando discontinuità e lealtà si è imbarcato in un’impresa ardua e anche coraggiosa, considerata l’impopolarità del centrosinistra.

Non stupisce questa scelta doppia, almeno per il momento fatta propria: questo somigliare a Sarkozy o Brown e questo desiderio di non identificarsi con loro interamente. Nel primo governo Prodi, tra il ‘96 e il ‘98, Veltroni fu vice primo ministro e diede prova di grande lealtà. Il suo nome non è coinvolto nell’avventura ancora opaca che portò alla defenestrazione del presidente del Consiglio e anche oggi l’intenzione non sembra questa. La lealtà è un ingrediente importante della sua popolarità ed è fatta di intelligente pazienza, di calma, di fiducia. Sono doti che mancano a molta parte della sinistra e del centro.

Eppure Veltroni è stato duro quando ha parlato delle malattie del centrosinistra. L’ha descritto come una coalizione che stenta a decidere, a cominciare dalla legge elettorale. Ha detto che governare è impossibile, quando basta un senatore per paralizzare ogni cosa. Ha denunciato vizi che sono della destra italiana ma anche della sinistra: i corporativismi, lo spirito conservatore, il primato dato non all’interesse generale ma al particolare. «Fare un’Italia nuova» significa superare questi vizi e l’invito era rivolto al governo ma in special modo a sinistra radicale e sindacato. Invocando un patto più solidale fra generazioni in materia pensionistica, ha detto che l’innalzamento dell’età anagrafica «non è una disgrazia» e ha aggiunto che «il sindacato non può e non deve solo tutelare chi ha un posto di lavoro o i pensionati. Deve tutelare i giovani che faticano a entrare nel mondo del lavoro». Di Marco Biagi e Massimo D’Antona ha evocato «il senso dello Stato e l’impegno civile».

I critici diranno che la lealtà nasce dal suo buonismo: questa orribile parola spesso associata al sindaco di Roma. È un epiteto inventato quando era di moda criticare il politicamente corretto. Ma forse la moda è sfinita, non essendo stata efficace e avendo diviso il Paese anziché unificarlo. Anche sui contenuti Veltroni è stato fedele alla storia della sinistra riformatrice. Ha auspicato la sintesi tra cattolici e laici, e al tempo stesso ha difeso i Dico. Ha elogiato l’uguaglianza, pur auspicando l’uguaglianza del punto di partenza e non quella del punto d’arrivo. Ha compreso la questione settentrionale, ma ha scelto Torino come emblema di un «Nord mai contrapposto allo Stato».

Non mancano i rischi: Veltroni, che fin qui è stato paziente, può spazientirsi. Può temere anche – non senza ragione – di esser trascinato verso il basso da vizi e difficoltà del governo. Alcuni suoi gesti, più o meno recenti, son parsi più impazienti del solito. Affascinato dalle prime mosse di Sarkozy, qualche giorno fa, ha detto che sarebbe bello un governo con Gianni Letta, che da decenni è l’uomo fidato di Berlusconi: come se Letta potesse esser equiparato alla personalità, del tutto indipendente, che è il ministro degli Esteri francese Kouchner. E prima delle elezioni del 2006 si scambiò biglietti strani con Casini, durante una conferenza, in cui fece capire che quelli non erano bei tempi: «È il momento di scelte alte, coraggiose. Ma non mi sembra questo lo spirito del tempo».

Denunciare lo spirito del tempo è cosa buona, quasi sempre. È la nota distintiva dell’homo novus. Ma a volte è un modo leggermente narcisista di vivere e commentare la politica, giudicata sempre un po’ noiosa e bassa quando non è fatta da noi.