Il 26 marzo del 1999 Silvio Berlusconi, nel discorso
parlamentare sulla guerra del Kosovo, dichiarò che non sarebbe mancato il
sostegno dell’opposizione al governo D’Alema, pur «privo di maggioranza in
politica estera», giacché questa scelta rappresentava il dovere inderogabile
«che spetta all’opposizione quando sono in gioco gli impegni non del governo
ma del Paese».
Ma ieri il leader di Forza Italia, in circostanze analoghe se
non identiche, non ha voluto attenersi al principio proclamato con solennità
esattamente otto anni fa, e ha incassato con un solo gesto due risultati
negativi. Ha voltato le spalle a un decreto la cui approvazione era stata
richiesta addirittura dall’ambasciatore americano in Italia. E ha dimostrato
che in Senato, pur tra mille peripezie e acrobazie, il governo Prodi ha
conservato una maggioranza autosufficiente, anche prescindendo dall’apporto
dei venti senatori dell’Udc che hanno votato sì.
Il mito della spallata,
galvanizzante e capace di mobilitare la piazza, ha abbagliato i leader del
centrodestra, inducendoli a pensare che la maggioranza, paralizzata dai suoi
contrasti interni, si sarebbe miracolosamente liquefatta. Solo così si
spiega la piroetta con cui la Casa delle Libertà ha rinnegato il voto
favorevole alla Camera accordato una manciata di giorni fa. E si spiega la
concitazione frettolosa con cui Silvio Berlusconi ha riposto quella linea di
condotta abbracciata otto anni orsono, e che sanciva la preminenza degli
interessi nazionali su quelli di uno schieramento. A lenire le ferite di una
sconfitta che non era scritta nel destino non provvederà nemmeno la caccia
al capro espiatorio, l’accusa a Pier Ferdinando Casini di aver
proditoriamente «salvato» il governo. I numeri dicono che le cose stanno
diversamente e Prodi esce paradossalmente rafforzato da un braccio di ferro
che l’opposizione ha affrontato senza calcolarne rischi e
contraddizioni.
Casini può legittimamente obiettare che, rispetto al voto
della Camera, a cambiare posizione non è stato lui, ma il resto
dell’opposizione, passato inopinatamente da un voto favorevole
all’astensione. Il governo può a sua volta sostenere che l’accoglimento di
un ordine del giorno del centrodestra in cui si chiedeva un irrobustimento
della sicurezza militare dei soldati in Afghanistan dimostra il rifiuto di
una logica di contrapposizione assoluta. La comunità internazionale, in
primo luogo gli Usa e la Gran Bretagna, possono invece rammaricarsi perché
la richiesta all’Italia di non lesinare sforzi e risorse quando in
Afghanistan si è alla vigilia di uno scontro decisivo con i talebani non ha
potuto contare su un’opposizione che aveva fatto della solidarietà atlantica
un tratto identitario.
L’opposizione (o le due opposizioni, come oramai
appare incontestabile) avrà motivo di riflettere su una scelta che non è
stata in grado di ottenere nemmeno uno dei risultati che si prefiggeva. Alla
maggioranza di governo, passato lo spavento, non converrà contemplarsi nella
sensazione di un’autosufficienza ritrovata, ma pur sempre gracile e
vulnerabile. La seconda guerra di Kabul imporrà ancora dilemmi drammatici,
non esorcizzabili con il ricorso a sofisticate tattiche parlamentari. Con la
speranza che maggioranza e opposizione riescano a capirlo prima che sia
troppo tardi.