8 Aprile 2005
L’eredità di Wojtyla: seguite la via del Concilio
Autore: Luigi Accattoli
Fonte: Corriere della Sera
CITTA’ DEL VATICANO – Papa Wojtyla ha mai pensato a dimettersi, o no? Il testamento pubblicato ieri chiarisce infine la questione: in esso egli esclude – in una pagina scritta nel 2000 – l’intenzione di dimettersi per propria iniziativa, ma afferma la disponibilità a farlo se la malattia glielo imponesse.
Al centro del testamento – scritto a sei riprese, tra il 1979 e il 2000 – c’è un messaggio forte ai successori: affida loro il «grande patrimonio» del Vaticano II. Intorno a questa consegna, c’è una sovrabbondanza di memorie e di sogni, di ogni fatto bello e forte che ha riempito la sua vita. E’ un testo bello, da poeta.
Vi troviamo il desiderio della tomba «nella terra», la fantasia – cui rinuncia – del ritorno del corpo in Polonia. Dopo il «totus tuus sum» («Sono tutto tuo»), dedicato alla Vergine, il primo soprassalto l’abbiamo leggendo: «a tutti chiedo perdono». Un Papa che chiede perdono!
Tutto il testamento richiama Paolo VI: per l’intonazione lirica, ma anche per citazioni dirette. Come il predecessore chiede che gli «appunti personali» siano bruciati: quelli di Paolo VI non lo furono e c’è da dubitare che lo siano questi di Wojtyla. Quando non c’è più, neanche un Papa viene obbedito.
Per la tomba il Papa polacco si rifà al predecessore italiano: «Amerei che fosse nella vera terra», aveva scritto Montini e Wojtyla: «Il sepolcro nella terra, non in un sarcofago». Un’aggiunta del 1990 chiederà «sante messe e preghiere»: come se al Papa ne potessero mancare!
Colpisce l’attitudine da cristiano comune, che anche i Papi assumono quando pensano alla morte. Come farebbe ognuno di noi, già nel primo foglio del testamento Wojtyla si era preoccupato di ricordare a don Stanislao di «distribuire» a suo criterio «le cose di uso quotidiano che mi servivano».
Si può pensare che penne e libri, calici e breviario andranno alle tante persone che negli anni hanno frequentato l’appartamento privato. La tormentata questione della sepoltura in Polonia Wojtyla l’affronta più volte nel testamento: non era dunque una fantasia dei suoi connazionali, che ci avesse pensato.
Ci pensa, ma non decide e lascia la decisione ad altri: «Sul luogo (della sepoltura, ndr ) decidano il Collegio cardinalizio e i connazionali». Si direbbe che Wojtyla, polacco fatto romano, sia vissuto con il sentimento dell’esule, come sospeso tra due patrie, tanto da non saper scegliere il luogo della tomba.
ll Papa polacco che vive a Roma partecipa ai drammi della nuova patria, che vive gli anni di piombo. Piange l’uccisione di Bachelet e tanti altri, celebra per loro in San Pietro e nel testamento, poco dopo (marzo 1980) parla di tempi «indicibilmente difficili e inquieti», nei quali «difficile e tesa è diventata anche la vita della Chiesa» e «tante persone scompaiono innocentemente, anche in questo Paese dove viviamo».
La Polonia entra nella turbolenza della liberazione dal comunismo e il Papa esule si dice pronto a morire per tutti gli aspetti della sua «missione», compresa la «salvaguardia» della sua «patria terrena». E più tardi dirà che l’attentato costituisce qualcosa come una riprova di quella disponibilità a «morire» per la Polonia.
Sta per compiere ottant’anni e annota: «bisogna domandarsi se non sia il tempo di ripetere con il biblico Simeone “Nunc dimittis”». Nella concitazione della lettura del testamento papale e del rilancio per agenzia, verso ogni Paese, c’è chi ha tradotto il nunc dimittis («ora lascia») con un perentorio «ora dimettiti», ma qui le dimissioni non c’entrano: quelle due parole latine sono l’ incipit del Cantico di Simeone, che dice: «Ora lascia che il tuo servo vada in pace».
Non miravano dunque quelle parole – nell’intenzione di Wojtyla – alla pace del pensionato ma a quella dell’aldilà. Chi ha intitolato i servizi di agenzia sul fatto che nel 2000 Wojtyla avesse «preso in considerazione» le dimissioni non ha sbagliato del tutto, perché poco più avanti il Papa – sempre riflettendo sulla sua età avanzata – invoca l’aiuto di Dio perché in futuro l’aiuti a «riconoscere fino a quando devo continuare questo servizio».
Si può concludere che Wojtyla di certo nel 2000 – ma neanche in altra data – non ha «considerato» le dimissioni, tant’è che allora e prima e dopo le escluse in discorsi pubblici, ma disse a Dio che era pronto a considerarle, se la sua salute l’avesse richiesto.
Guardando all’insieme della vita, osserva che i rivolgimenti del 1989 hanno liberato l’umanità «dalle precedenti tensioni», ma hanno portato con sé «nuovi problemi e difficoltà». Davvero il Papa aveva temuto la guerra nucleare, se ora ringrazia la Divina Provvidenza perché non c’è stato «il violento conflitto» contro cui aveva tanto gridato.
Le parole più importanti sono quelle sull’eredità del Vaticano II: «Desidero affidare questo grande patrimonio a tutti coloro che sono e saranno in futuro chiamati a realizzarlo». Un vero e proprio passaggio di consegne ai successori.
Struggente – come sempre nei testamenti – il saluto finale, per il quale elenca quanti aveva amato in vita: genitori, fratello e sorella, la parrocchia di Wadowice (il paese natale, che chiama anche «città del mio amore»), compagne e compagni di scuola e di ogni stagione. Termina con le ultime parole di Cristo sulla croce: «Nelle tue mani affido il mio spirito». Parole scritte nel 2000, adempiute sette giorni fa.