C´è un filo ininterrotto di ambiguità, un doppio linguaggio che contraddistingue i rapporti tra l´Europa e la Turchia fin da quando questa, a metà dell´Ottocento, divenne “il grande malato” delle diplomazie occidentali: un malato da tenere artificialmente in vita per poterlo meglio spogliare a poco a poco dei suoi gioielli. Il responso che la Commissione europea darà oggi sull´apertura dei negoziati di adesione con Ankara non fa eccezione alla regola. Bruxelles infatti schiuderà la porta ai turchi ben sapendo che, quando questi arriveranno a varcarla, la vera Europa sarà da un´altra parte e con una porta d´ingresso assai meglio sorvegliata.
Il commissario Guenter Verheugen, cui tocca in compito di stendere il rapporto di valutazione sulla compatibilità della Turchia con l´Unione, aveva di fronte a sé due strade possibili per salvarsi l´anima. La prima era di elogiare e sottolineare i reali progressi compiuti dal governo di Erdogan sulla via della democrazia, ma concludere che questi non sono ancora sufficienti a soddisfare gli standard europei. La seconda era di criticare aspramente il permanere in Turchia di antichi vizi come il ricorso alla tortura, la violenza sulle donne, l´arresto di giornalisti scomodi, le restrizioni imposte ai curdi, ma di raccomandare l´apertura dei negoziati di adesione in virtù dei progressi comunque compiuti.
Verheugen ha scelto, come tutti si attendevano, quest´ultima opzione. E francamente non aveva molte alternative. Se anche infatti la Commissione avesse avuto il coraggio di non raccomandare l´apertura dei negoziati, avrebbe rischiato di vedere il proprio parere ribaltato dai capi di governo che a dicembre dovranno prendere sulla questione la decisione definitiva. E i capi di governo sono, in larghissima maggioranza, ben determinati a sgombrare il campo dalla “grana” turca, aprendo i negoziati e sperando che questi durino almeno fino al 2014: una data che va ben al di là dell´orizzonte politico di qualsiasi leader europeo.
Ma non è tanto un gesto di miopia quello che gli europei si accingono a compiere socchiudendo le porte ai turchi quanto piuttosto di cinismo politico.
Un calcolo di rischi e benefici in cui, per alcuni, l´ambiguità è messa al servizio di una visione strategica.
Respingere oggi la richiesta turca, dopo che per quarant´anni si è data ipocritamente ad Ankara l´assicurazione che la Turchia aveva «piena vocazione» a diventare un partner dell´Unione, avrebbe significato qualificare l´Europa come una cittadella cristiana, mandare un segnale negativo a tutto il mondo islamico moderato che ritiene compatibili Corano e democrazia, rafforzare l´intransigenza degli integralisti, gettare benzina sul fuoco di chi cerca di rendere irreparabile lo “scontro di civiltà”. Senza contare che il contraccolpo di un rifiuto avrebbe potuto danneggiare irreparabilmente la lenta marcia di avvicinamento dei turchi agli standard della democrazia europea creando un vicino ostile e rancoroso in una regione cruciale per i nostri interessi strategici.
Un prezzo, quello del rifiuto, che secondo alcuni valeva la pena di pagare per salvare l´identità europea, definire una volta per tutte i confini dell´Unione e salvaguardare il processo di integrazione politica rilanciato dalla firma della Costituzione europea. Tutti obiettivi difficilmente perseguibili con ottanta milioni di turchi dentro le frontiere dell´Ue.
Ma il fatto è che nessuno crede, a Bruxelles o nelle capitali dell´Unione, che la Turchia arriverà davvero a condividere le istituzioni comunitarie così come sono adesso, e come le prefigura la Costituzione. E questo non tanto per sfiducia nei turchi o nel processo negoziale, che potrebbe anzi rivelarsi più rapido di quanto si immagini. Ma perché quasi nessuno prende sul serio la possibilità che la nuova Costituzione, che verrà solennemente firmata a Roma il 29 ottobre prossimo, possa essere ratificata da tutti e venticinque gli stati membri.
La procedura costituzionale ha infatti gettato sul tavolo della politica europea la bomba innescata dei referendum popolari. E l´Europa che sarà disegnata dai popoli potrebbe rivelarsi molto diversa da quella voluta dalle diplomazie. In almeno dieci paesi, ma forse di più, la gente sarà chiamata a votare sulla ratifica. E se anche il test referendario sarà superato in Francia o in Olanda (e non è certo che lo sia), difficilmente potrà passare l´esame in paesi come la Gran Bretagna, la Polonia, l´Irlanda, la Danimarca o la Repubblica Ceca.
Una ratifica della Costituzione a macchia di leopardo porterebbe inevitabilmente alla nascita di un´Europa divisa. Da una parte un nocciolo duro politico, probabilmente federale e sempre più integrato. Dall´altra, se tutto va bene, una comunità più larga ma ridotta sostanzialmente ad un grande mercato unico in cui la Turchia potrebbe entrare senza traumi eccessivi.
Quanto all´ingresso di Ankara nell´Europa politica, che sarà probabilmente più ridotta ma più coesa di quella attuale, sarà tutta un´altra storia. Il nocciolo duro si prefigura come molto più selettivo. E Chirac ha già messo le mani avanti invocando il diritto dei francesi a pronunciarsi per referendum su ogni futuro allargamento.