28 Settembre 2005
Le fiction tenute nel cassetto
Autore: Romano Prodi
Fonte: Corriere della Sera
Quando parlo di preoccupazione per l’atteggiamento dei mezzi di informazione televisiva, esprimo un disagio e una critica condivisi più volte con i miei collaboratori e con i colleghi dell’Unione. Non faccio di mestiere il critico televisivo e, quindi, lascio ad altri l’analisi caso per caso, e trasmissione per trasmissione, di quanto va in onda sui canali nazionali.
Mi limito a qualche constatazione che mi riguarda più da vicino sorvolando sui servizi che mi vengono dedicati quasi ogni sera da uno dei telegiornali Mediaset. Telegiornale che mi sembra comunque troppo comodo e sbrigativo mettere sul piatto della bilancia della correttezza dell’informazione come contrappeso alla presunta partigianeria del Tg3, che non mi pare possa essere accusato di eccessiva generosità nei confronti del centrosinistra e, in particolare, nei miei confronti.
Ciò che mi colpisce è una sostanziale assenza di informazione su tutte le attività che in questi mesi abbiamo avviato: da quando ho lasciato l’incarico di presidente della Commissione europea salutato da una standing ovation del Parlamento europeo, registrata dalle televisioni di tutta Europa e non dalle televisioni italiane, alla nascita della fabbrica, fino agli incontri di questi giorni in tante piazze italiane con platee di migliaia di persone sempre rigorosamente estromesse dalle inquadrature, dedicate esclusivamente al palco e agli oratori che appaiono ai telespettatori come predicatori nel deserto.
Spesso e volentieri inoltre la presenza delle telecamere e dei microfoni è più finalizzata a carpire questo o quel commento su quanto detto da altri leader politici piuttosto che a fornire qualche informazione sull’evento in corso. Eppure, vi garantisco, spesso sono incontri interessanti, ricchi di spunti e persino di polemiche.
Non definisco tutto questo censura, so benissimo che la censura è ben altro, né mi arrogo la facoltà di prescrivere come devono essere realizzati servizi e trasmissioni televisive. Reputo tuttavia mio diritto, come di ogni cittadino, dichiarare la mia insoddisfazione per quanto vedo circolare sulle reti nazionali e non solo nei telegiornali, insoddisfazione che rimarrebbe tale anche se l’Osservatorio di Pavia mi accreditasse una attenzione maggiore da parte delle emittenti nazionali.
Ritengo infatti che una riflessione seria sulla qualità dell’informazione e, più in generale, della produzione televisiva dovremmo farla tutti.
La televisione è stata fondamentale fattore di crescita e civilizzazione del nostro Paese. È stata, è ormai riconosciuto universalmente, lo strumento che più efficacemente ha fatto dell’Italia una nazione unita nella lingua e nei costumi. È stata, dalla metà degli anni 50 in poi, la grande maestra di un popolo.
Oggi mi sembra sempre più una cattiva maestra, diseducativa più che pedagogica, superficiale più che dedita all’approfondimento, talvolta addirittura prepotente nell’imporre le sue regole, i suoi ritmi, i suoi giochi delle parti.
Sulle mie preoccupazioni invece si è subito scatenato un fuoco di fila di dichiarazioni, di reazioni tese più a dimostrare che quanto ho affermato è falso piuttosto che ad esprimere opinioni ponderate sulla sostanza della mia critica.
Fino al paradosso, tanto caro al Presidente-editore, di sostenere che le televisioni (comprese le sue) sono una sorta di arcipelago Gulag della comunicazione presidiato da spietate ed efficientissime falangi dell’Armata Rossa.
Suscita una certa impressione sentire affermare che persino la fiction televisiva è «comunista», soprattutto se a sostenerlo sono quelli che hanno nominato una dirigenza del servizio pubblico che, in questi anni, ha tenuto nei cassetti il più a lungo possibile opere come «La meglio gioventù» o la serie su De Gasperi, due fiction di qualità premiate dalla critica e dal pubblico, sicuramente non «comuniste», ma semplicemente impegnate a raccontare il drammatico chiaro-scuro degli anni più recenti della nostra storia.
Direi che è sovietica, quella sì, la visione del mondo di quanti vorrebbero che anche le serie televisive fossero filtrate da strumenti censori o auto-censori e che raccontassero un Paese che non c’è.
Spero con ciò di avere fatto chiarezza sul mio pensiero.
Quello che è certo è che, in questo contesto e con questo stato d’animo, pure nella consapevolezza che, come tutti mi ripetono continuamente, con la potenza e l’efficacia del mezzo televisivo, se si vuole «fare politica», bisogna fare i conti, cercherò per quanto mi riguarda di ricorrere più ad altri mezzi di informazione convenzionali e non convenzionali, centellinando il più possibile le mie presenze sugli schermi delle TV nazionali.