Forse, la struttura mentale originaria, che condiziona il
rapporto tra noi e il mondo, è la contrapposizione tra ciò che è naturale e sta
fuori di noi, e ciò che è artificiale e procede da dentro di noi. La filosofia,
con la sua presunzione, ha distrutto la possibilità di ragionare così
semplicemente.
Ma più della filosofia, è il tempo attuale, il tempo in
cui perfino la “natura” dell’essere umano può essere il prodotto del suo
“artificio” – potenza della genetica – ; il tempo in cui il dentro e il fuori di
noi, il soggetto e l’oggetto che siamo diventati si confondono, a rendere vana
quella distinzione. Ciò non di meno, continuiamo a ragionare così: anzi, ci
aggrappiamo ancor di più a quella distinzione, come a un’assicurazione. Forse,
ne abbiamo un bisogno “naturale”, per non cadere preda della vertigine di un
soggetto che, al tempo stesso, è oggetto di sé stesso; un soggetto avvolto e
sprofondato così in un circolo vizioso esistenziale.
Il pensiero
religioso vede in ciò la bestemmia dell’uomo che vuole farsi Dio, cioè imitare
l’unico che, secondo un’interpretazione del libro dell’Esodo (3, 1-6), può dire
di “essere colui che è” in forza solo della sua potenza. Non stupisce dunque
affatto che proprio quando è diventato insostenibile, il binomio
natura-artificio sia stato riscoperto, per trovare in esso la norma delle azioni
umane, una norma che assegna al naturale il primato sull’artificiale, sinonimo
di inganno, abuso, adulterazione.
Nel campo della giustizia, la
contrapposizione si traduce nella tensione tra diritto di natura e diritto
positivo, cioè legislazione. La giustizia nella polis è di due specie – diceva
già Aristotele –, quella naturale e quella legale; la giustizia naturale vale
dovunque allo stesso modo e non dipende dal fatto che sia riconosciuta o no. La
giustizia legale, invece, è quella che riguarda ciò che, in origine, è
indifferente e può variare secondo i luoghi e i tempi. La storia del “diritto
naturale” è fatta di corsi e ricorsi. Per lunghi periodi può essere dato per
morto.
Nei decenni passati, quasi nessuno ci pensava più. Ma questo è un
momento di rinascita: quando la legge fatta dagli uomini secondo le loro
mutevoli convenzioni appare ingiusta, le si contrappone la legge obbiettiva
della natura, che nessuno può alterare. Così si fa da parte della Chiesa
cattolica, per opporsi ai cambiamenti in tema di unioni tra persone, eutanasia,
sperimentazione scientifica, genetica, ecc.; e per ritornare all?antico, in tema
di famiglia, contraccezione, aborto, ecc. In questo modo, essa viene a proporsi
come grande rassicuratrice che dispensa certezze etiche, in un mondo – si dice –
moralmente sfibrato dal famigerato “relativismo”, sinonimo di puro edonismo,
scetticismo antirazionalista, nascosto sotto i panni accattivanti della
tolleranza.
Il diritto naturale è indubbiamente una risorsa che appaga il
bisogno di sicurezza. Di fronte a veri o presunti arbitrii e, perfino, ai veri e
propri delitti compiuti con l’avallo della legge fatta dagli uomini, che cosa è
più rassicurante di una legge obbiettiva, sempre uguale e valida per tutti, la
legge della natura appunto, che gli uomini non possono alterare e corrompere a
loro piacimento?
Sennonché, qui incominciano le difficoltà. Il diritto
naturale non è affatto il terreno del consenso che abbraccia l’umanità intera in
nome di una giustizia universalmente riconosciuta. Al contrario, è il terreno
dei più radicali conflitti. Innanzitutto, che cosa è la “natura” alla quale ci
appelliamo? Se ci volgiamo al passato, vediamo una grande confusione. Per
qualcuno, i cristiani ad esempio, è opera di Dio; ma per altri, gli gnostici, è
opera del demonio. I primi ameranno la natura, come Dio ha amato il creato (Gen
1, 31: “E Dio vide che era cosa buona, molto”) e trarranno la
convinzione di
dover rispettarla così com’è; i secondi la odieranno come cosa corrotta e
faranno di tutto per non farsi prendere dalla sua
bassezza.
Indipendentemente da Dio e dal demonio, poi, per alcuni la
natura è madre
benefica e per altri, matrigna malefica. La visione
dell’illuminismo protoromantico era quella dell’armonia della vita naturale,
guastata dalla civiltà, ma Giacomo Leopardi nutriva ogni genere di disperazione
verso quella che “per costume e per istinto è carnefice impassibile e
indifferente della sua propria famiglia, de’ suoi figliuoli e, per così dire,
del suo sangue”. “È funesto a chi nasce il dì natale”, canta alla luna il
pastore errante dell’Asia: e chi, nella sua vita, non ha mai pensato
così?
Che cosa, poi, vediamo dentro il diritto naturale? Alcuni, come gli
stoici, il regno dell’uguaglianza e della dignità umana.
I Padri della
Chiesa svilupparono questa visione nell’idea di uguaglianza e fratellanza dei
figli di Dio (non senza limitarla, però, ai soli credenti in Cristo). D’altra
parte, Aristotele considerava la schiavitù conforme alla natura. Per i sofisti
Gorgia e Trasimaco, secondo Platone, “la natura vuole padroni e servi”, la
giustizia naturale essendo “l’utile del più forte”. Spencer, il filosofo del
cosiddetto darwinismo sociale, era sulla stessa linea, quando affermava che solo
la natura assicura i necessari ricambi. Se lo Stato interviene a favore dei
bisognosi e degli ignoranti, con ospedali e scuole, fa solo sopravvivere – a
danno della collettività che li deve poi mantenere –i soggetti più deboli della
razza umana”, i “parassiti”.
Questa idea, applicata non agli uomini ma
alle razze, ha permesso perfino di affermare che i razzisti sono i veri
difensori del diritto naturale. Sono esempi raccolti a caso. Mostrano con
evidenza che non esiste una natura da tutti riconoscibile. Si può parlare di
natura, e quindi di legge naturale, solo dall’interno di un sistema di pensiero,
di una visione del mondo, ma i sistemi e le visioni appartengono alle culture,
non alla natura. Possono perciò essere differenti, spesso antitetici. Si
discute, in questi tempi, di eutanasia.
Il papa Benedetto XVI ripete
instancabilmente la sua convinzione: “Nessuna legge può sovvertire la norma del
Creatore senza rendere precario il futuro della società con leggi in netto
contrasto col diritto naturale. Dalla natura derivano principi che regolano il
giudizio etico rispetto alla vita da rispettare dal momento del concepimento
alla sua fine naturale”? (12. 2. 2007). La “Esortazione apostolica” Sacramentum
Caritatis del 15 marzo, ribadendo la “Nota” della Cei del 28 marzo, richiama
ulteriormente il valore vincolante della “natura umana”: insomma, un
martellamento.
Ma, leggiamo che cosa diceva un opuscolo nazista del
1940, dal titolo Du und dein Volk (“Tu e il tuo popolo”), in tema di
“eliminazione dei malriusciti” e delle “razze decadenti”: «Dovunque la natura
sia rispettata, le creature che non possono competere con i più forti sono
eliminate dal flusso della vita. Nella lotta per l’esistenza questi individui
sono distrutti e non possono riprodursi. Questa è chiamata selezione naturale
[…] Nel caso degli esseri umani, il completo rifiuto della selezione ha condotto
a risultati indesiderabili ed inaspettati. Un chiaro esempio è l’incremento
delle malattie genetiche. In Germania, nel 1930, c’erano circa 150.000 persone
in istituti psichiatrici e circa 70.000 criminali in carceri e prigioni. Essi
erano, tuttavia, solo una piccola parte del numero reale di handicappati. Il
loro numero è stimato in oltre mezzo milione. Essi richiedono un’enorme spesa da
parte della società», che si traduce in danno per la parte sana, tanto più
perché li si lascia liberi di riprodursi. “La carità diventa una piaga”,
concludeva quel testo, ispirato alla natura.
Noi leggiamo con orrore
queste parole, ma non in nome della natura tradita; in nome invece della
cultura, della civiltà, dell’umanità o della religione: tutte cose che non hanno
a che vedere con la natura, intesa nella sua dura realtà; appartengono al campo
della libertà, non a quello della necessità. Che sia così, che la natura possa
essere apprezzata solo dal punto di vista di qualche visione del mondo e non dal
punto di vista di una pretesa essenza meramente esistenziale dell’essere umano,
è riconosciuto nella relazione che il teologo della Casa pontificia, Wojciech
Giertych, ha recentemente tenuto (12 febbraio di quest’anno) al Congresso
internazionale sul diritto naturale promosso dall’Università del Papa,
l’Università lateranense.
In un passo finale, si riconosce che la natura
umana non è un concetto biologico o
sociologico bensì, con Tommaso d’Aquino,
teologico. Che cosa è l’essere
umano dovrebbe comprendersi considerando il
suo rapporto con Dio. I precetti
fondamentali del diritto naturale sarebbero
percepibili solo per mezzo di
un’intuizione metafisica delle finalità
dell’esistenza, un’intuizione di fede : “La realizzazione pratica dell’ethos del
diritto naturale non è possibile senza la vita della grazia”. Fides et gratia,
dunque, come presupposto per il discorso cristiano sulla natura: che cosa c’è di
più “innaturale” di questa visione della natura, dal punto di vista di chi –
legittimamente, si presume ancora – non è credente?
Ecco, come la natura
può diventare una maschera della sopraffazione: chi è privo di fede e grazia
sarà considerato un errante, un reprobo, un contro-natura o, nella migliore
delle ipotesi, uno da convertire con l’aiuto di Dio misericordioso; in ogni
caso, non uno al quale si possa riconoscere un valore da prendere in
considerazione. Al più, povero lui, per il suo bene gli si potrà proporre, cieco
com’è di fronte all’autentica natura umana, la peregrina e umiliante idea di
fidarsi, di essere e agire (secondo le parole del papa Benedetto XVI) veluti si
Deus daretur, come se Dio esistesse, cioè, più precisamente, secondo ciò che la
Chiesa stessa dice di Dio. Senza però – lo si è visto – che ne sia davvero
capace, privo come è di grazia e fede.
Non c’è nulla di meno produttivo e
di più pericoloso che collocare così i drammatici problemi dell’esistenza nel
nostro tempo sul terreno della natura. Un grande giurista del secolo scorso,
cattolico per giunta, ha scritto che evocare il diritto naturale nelle nostre
società, dove convivono valori, concezioni della vita e del bene comune diverse,
significa lanciare un grido di guerra civile. Aveva ragione.
Non siamo a
questo, ma non ci siamo molto distanti quando, come di recente, si incita a
disobbedire alle leggi non solo i cittadini, non solo categorie di esercenti
funzioni pubbliche (medici, paramedici, farmacisti) ma addirittura i giudici,
cioè proprio i garanti della convivenza civile sotto il diritto. Questo
incitamento, per quanto nobili a taluno possano sembrarne le motivazioni, è
sovversivo; è espressione della pretesa di chi ha l’ardire di porsi
unilateralmente al di sopra delle leggi e della Costituzione. La democrazia è
sempre aperta alla ridefinizione delle regole della convivenza, ma concede
questo potere a tutti, e quindi a nessuno in particolare e
unilateralmente.
La rinascita del diritto naturale corrisponde a
un’esigenza sulla quale molti, credenti e non credenti, possono concordare con
facilità: che non tutto ciò che è materialmente possibile sia anche moralmente
lecito. La tecnologia, alimentata da economia e concorrenza, è come travolta
dalla sua stessa potenza, e questa potenza pare diventare il fine supremo. A sua
volta, ciò che noi chiamiamo globalizzazione, cioè quella superficie tutta
liscia su cui tecnologia ed economia scorrono senza incontrare ostacoli, ha
bisogno di assopimento delle coscienze, di nichilismo e conformismo, affinché la
sola logica del mercato possa affermarsi.
Ma non è la natura, l’ancora
di salvezza di cui abbiamo bisogno. Essa è una risposta falsa, ingannatrice e
aggressiva al tempo stesso, che divide pretestuosamente il campo degli uomini di
buona volontà, che avrebbero invece molto da ragionare insieme nella ricerca di
ciò che è buono e giusto. Proprio in questa ricerca, se mai, consiste la natura
umana. La legge naturale che ne deriva è che gli esseri umani non possono
sfuggire al dovere di agire nel mondo con responsabilità e secondo la libertà
che è loro propria: una legge dalla quale la Chiesa sembra allontanarsi
vistosamente, quando ripropone vecchie visioni della natura che sollevano sì
dalla responsabilità, ma accentuano il potere a scapito della
libertà.