Appena rientrato in Italia, Romano Prodi deve fronteggiare una scelta drammatica. Egli aveva richiesto di accelerare i tempi, di decidere rapidamente se presentare alle prossime elezioni politiche la Federazione «Uniti nell’Ulivo» come soggetto unitario, eliminando ogni riferimento nella scheda proporzionale ai partiti che questa Federazione compongono, Ds, Margherita, Sdi e repubblicani europei.
L’accelerazione era forte: essa implicava quasi di necessità la formazione di un unico gruppo parlamentare dopo le elezioni ed era premessa indispensabile a un processo costituente, dalla Federazione al partito unico. Il secco no della Margherita ha trasformato l’accelerazione in una frenata: la Federazione resta in piedi come impegno di collaborazione tra partiti, ma l’Ulivo, il popolare rametto con le cinque foglioline, rischia di scomparire dalla vista degli elettori.
Quali possono essere le alternative per Prodi e per chi ha condiviso il suo disegno Escludendo una rinuncia alla candidatura a premier, un’alternativa che elenco solo per motivi di completezza è quella di una lista unica tra i willing , tra chi ci sta: essa implica l’uscita del gruppo prodiano da Margherita e una mini-federazione tra questo, i socialisti, i repubblicani e i Ds, con a capo Romano Prodi. Insomma, un pasticcio di elefante ed allodola, direbbe Cossiga: sarebbe difficile per l’elettore non vedere in questa mini-federazione un soggetto di sinistra, un nuovo travestimento degli ex comunisti, e dunque aumenterebbe lo spazio regalato a Margherita nella conquista del centro. E poi i Ds non sarebbero molto contenti di svenarsi in voti e seggi per far spazio ai prodiani.
Una alternativa reale è invece la costituzione di un partito intorno a Prodi. Se questa operazione venisse condotta senza eccessive polemiche, essa potrebbe capitalizzare la rendita di avere come capo del partito il candidato premier (ma lo sarebbe ancora), attirerebbe tutti i «veri credenti» dell’Ulivo e avrebbe il vantaggio della coerenza: l’Asinello riprenderebbe il suo cammino verso la meta del partito democratico, il cammino iniziato nelle elezioni europee del 1999 e ora bloccato dalla decisione di Margherita.
Lo svantaggio è che si tratta di una decisione molto rischiosa: in caso di conflitto aperto tra Prodi e i partiti, chi vince E quali sarebbero le ripercussioni di questo conflitto interno al centrosinistra sul grande scontro elettorale dell’anno prossimo.
L’altra alternativa reale è quella che i partiti più grandi vedono con maggior favore: Prodi incassa lo stop di Margherita, accetta che non sarà lui a dar vita al grande partito per cui combatte da tempo, spegne rapidamente le polemiche e si dedica, in spirito di servizio, alla fabbricazione del programma per l’intero centrosinistra. Per Prodi si tratta di una sconfitta.
Ma di una sconfitta in una battaglia difficilissima, nella quale si trovava a combattere in una situazione oggettivamente contraddittoria: come capo della Federazione dell’Ulivo, doveva definire una identità riformista comune ai partiti moderati della coalizione; come candidato premier doveva produrre un messaggio e un programma elettorale che accontentasse tutti, moderati e radicali, Mastella e Bertinotti. Tra i due poli del dilemma egli ha oscillato, ascoltando tutti nella sua «Fabbrica del programma», salvo poi ricordarsi dell’esigenza di una forte identità riformista e impuntarsi sulla questione della lista unica.
Prodi ha ragione nel ritenere che c’è una buona dose di ipocrisia nei rimproveri che gli rivolgono Rutelli e Marini, di aver trascurato il compito di fare della Federazione un vero soggetto politico, unito su un programma riformistico coerente e diverso da quello della coalizione nel suo complesso: che sia questo il reale motivo per cui Margherita vuole correre da sola neppure un bambino è disposto a crederlo.
Ma un problema c’è e in ogni caso la decisione della Margherita è stata inequivocabile. E questo pone a Prodi, oggi, la scelta drammatica tra le due alternative reali che ho appena illustrato (la coalizione dei willing o il getto della spugna non le considero neppure): il partito di Prodi o l’accettazione di una premiership di puro coordinamento, dove il potere reale è tutto nelle mani dei partiti.
Qui non è possibile valutare in dettaglio i pro e i contro delle due scelte, che non sono affatto ovvi o decisamente a favore dell’una o dell’altra. Mi limito ad affermare con forza il punto di vista secondo cui Romano Prodi dovrebbe scegliere: egli dovrebbe preferire l’alternativa che rende massima la probabilità di vincere le elezioni e di governare per il bene del paese in questo momento difficile. Sperando che tra i due obbiettivi (vincere e governare) non ci sia un contrasto.