Preceduto dalla importante lettera del presidente Napolitano al
vicepresidente Mancino, il parere approvato martedì dal Consiglio
superiore della magistratura sul decreto legge in tema di sicurezza
pubblica, e sul relativo disegno di conversione, ha saputo mantenersi
(al di là dei suoi contenuti critici sul merito di alcune delle scelte
legislative) entro i binari di correttezza e di rispetto dei ruoli
istituzionali fissati dal capo dello Stato.
Sia pure espresse
attraverso lo strumento informale di una lettera, le indicazioni
fornite da Napolitano a Mancino compendiano, nella loro sintesi, una
sorta di trattatello di diritto costituzionale circa le «buone maniere»
cui deve ispirarsi l’atteggiamento del Csm di fronte ai progetti
legislativi in materia di amministrazione della giustizia. E, dato il
particolare momento in cui sono state dettate, esse si sono fatte
apprezzare, come già opportunamente notava ieri Pierluigi Battista su
queste colonne, anche per l’innegabile effetto di rasserenamento del
clima generale, grazie alla ridefinizione dei giusti rapporti di
confine tra il mondo della politica e quello della magistratura, per
gli aspetti di competenza del suo organo di autogoverno.
Due
sono i punti sui quali si è soffermata la lettera di Napolitano, ed in
entrambi i casi si tratta di notazioni ineccepibili, che tuttavia
andavano ribadite: soprattutto di fronte alla confusione delle lingue
che, nei giorni scorsi, aveva dato luogo anche a polemiche di asprezza
inusitata, sebbene spesso artificiose. Da un canto, vi è una netta
riaffermazione della legittimità della iniziativa del Csm di formulare
al ministro della Giustizia un parere sui progetti in questione, dal
momento che tale potere gli è espressamente attribuito dalla legge
(circostanza, questa, trascurata da molti nelle ultime settimane), ed è
stato consolidato nel suo concreto esercizio da una ormai costante
prassi istituzionale.
E va da sé che, entro questi termini, la
manifestazione di un parere da parte del Csm non può in alcun modo
interferire con le funzioni proprie del Parlamento, ma anzi si
inserisce come momento di contributo tecnico esterno nello sviluppo del
procedimento legislativo, attraverso l’uso che vorrà farne il ministro
Guardasigilli destinatario (altro è il discorso, invece, per quanto
riguarda eventuali fughe di notizie nel corso dell’itinerario
preparatorio di un tale parere, non a torto ritenute meritevoli di una
severa censura).
D’altro canto, nella lettera di Napolitano vi è
anche una precisa individuazione dei limiti, all’interno dei quali
soltanto il Csm può esercitare il suo potere di «dare pareri al
ministro». E la precisazione, questa volta, appare diretta ad evitare
il rischio di eventuali invasioni di campo da parte dello stesso
Consiglio, cui ovviamente non spettano né i compiti politici di una
«terza Camera» né alcuna prerogativa ad operare quel «vaglio di
costituzionalità», che è invece riservato dal sistema ad altre
istituzioni. Di questa necessaria distinzione di ruoli il Csm risulta
essere ben consapevole (come, del resto, ha con forza ribadito da
ultimo il vicepresidente Mancino), e lo ha dimostrato anche nella
stesura del parere approvato martedì.
Dove le pur comprensibili
perplessità, anche di ordine costituzionale, si sono incanalate nel
contesto di un documento dai contenuti pacati e costruttivi, secondo la
logica della «leale cooperazione» tra le istituzioni al vertice dello
Stato.
Che poi, leggendo tra le righe, si colgano nel corpo di quel
parere (soprattutto per quanto concerne la «grave irragionevolezza» del
meccanismo di sospensione automatica di determinati processi, con
riguardo al principio della «ragionevole durata») gli echi dei numerosi
dubbi di incostituzionalità emersi dal mondo degli studiosi e degli
operatori del processo penale, era obiettivamente inevitabile. Ma ciò
non significa che il Csm abbia esorbitato dalla sfera delle competenze
che gli sono proprie. Come non esorbiterebbe qualora, in futuro,
dovesse segnalare l’assenza dei necessari presupposti costituzionali in
un qualunque decreto legge, che fosse riferito a tematiche (ad esempio
quella delle intercettazioni telefoniche) non riconducibili all’area
dei «casi straordinari di necessità e di urgenza».